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la banda della Magliana
cura di Filippo Giannuzzi
Cercare di comprendere che cosa sia stata la Banda della Magliana e cosa abbia rappresentato per la storia italiana degli ultimi anni significa addentrarsi in un buco nero che risucchia in sé oltre un decennio di storia italiana e centinaia di personaggi, collegati fra loro da fili sottili e quasi invisibili.
Cominciò tutto quando – sul finire degli anni Sessanta - un gruppo di giovani malavitosi romani ebbe l’idea di unire le forze dei vari gruppi della criminalità che agivano, speratamente, in molti quartieri della capitale e in zone limitrofe, come Acilia. Proprio come stava tentando Raffaele Cutolo a Napoli con la Nuova Camorra Organizzata (NCO), deliquenti di rango come Franco Giuseppucci, Nicolino Selis, Maurizio Abbatino, Enrico De Pedis decidono di eliminare le infiltrazioni esterne alla città e assumere il controllo diretto di tutti gli affari illeciti della capitale.
Nata, quindi, come organizzazione criminale dedita al traffico della droga e ai sequestri di persona, la Banda – che da subito verrà identificata come la Banda della Magliana, dal nome del quartiere in cui viveva gran parte dei suoi capi – diventa nel giro di pochi anni una vera holding politico-criminale, in stretti rapporti con mafia, camorra, ‘ndrangheta, ma anche con esponenti del mondo della politica, nonché dell’estrema destra eversiva, pronta al salto verso il terrorismo.
Traffici illeciti (nel periodo di maggiore attività non un grammo di cocaina veniva da fonti estranee alla Banda), ma anche grandi lotte di potere intestine: l’eliminazione di Franco Nicolini, detto "er criminale", boss dell’ippodromo di Tor di Valle, ma anche la faida con la famiglia Proietti, legata a quest’ultimo, in cui perderà la vita Giuseppucci, il principale collegamento con gli esponenti dello spontaneismo armato di destra.
Tutto questo sotto gli occhi di una Roma e di un’Italia attravversate da fenomeni duri: gli anni di piombo che insanguinano il paese sul finire degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo.
Una Banda – la Banda della Magliana – senza un vero capo, ma sulla quale prende il sopravvento, di volta in volta, la figura criminale del momento e che, fatalmente, finisce al centro dei tanti intrighi di potere che si sviluppano in quegli anni: il caso Moro su tutti e poi l’omicidio Pecorelli, i depistaggi nell’inchiesta sulla strage alla stazione di Bologna, l’attentato a Roberto Rosone, vice presidente del Banco Ambrosiano, inevitabilmente legato al caso Calvi, i rapporti con il gran maestro della Loggia P2, Licio Gelli, l’arsenale custodito nei sotterranei del Ministero della Sanità, i legami di una delle sue figure di spicco, Enrico De Pedis, con la scomparsa di Emanuela Orlandi, appendice misteriosa dell’attentato al Papa.
Chi indaga sui misfatti della storia d’Italia degli anni anni Settanta e Ottanta, prima o poi si trova ad afferrare un filo che, se riavvolto, porta a quel quartiere nella zona sud della capitale e a quel gruppo criminale (ma non solo) che aveva deciso di impadronirsi della città.
da ‘Misteri d’Italia’
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'C'E' LA FIRMA DEL SUPERSISMI DIETRO TUTTI I DELITTI ECCELLENTI'
ROMA I delitti eccellenti che scandirono i primi anni 80 portano la firma dei servizi segreti. Servizi segreti deviati, naturalmente. Il noto Supersismi, quella struttura parallela legata a doppio filo alla P2 e a uno schieramento in animo di golpe.
Il pool dell' Alto commissariato per la lotta alla mafia ne è convinto. E dopo il dossier sull' omicidio Mattarella, torna a scavare nel passato. Da Palazzo di Giustizia i magistrati si sono fatti trasmettere i vecchi atti di tutti quei processi che riguardano gli omicidi rimasti senza colpevoli. Con il sospetto, sempre più forte, che dietro gli assassini politici ci sia un' unica regia e una stessa mano. Nessuno, per il momento, azzarda tesi che i fatti potrebbero smentire. Ma gli elementi raccolti finora portano allo stesso ambiente sul quale erano pesati i maggiori sospetti.
La pista porta alla famigerata banda della Magliana. Un' organizzazione troppo spesso sottovalutata e che solo dopo i primi arresti dei suoi componenti mostrò la sua aggressività e la sua potenza. Un torbido intreccio tra malavita e terrorismo nero con forti addentellati con la mafia siciliana. Per anni, molti omicidi, azzoppamenti, attentati furono creduti opera di un regolamento di conti tra gruppi rivali. Solo più tardi, si scoprì invece che le armi e i killer erano attinti dallo stesso serbatoio. Vennero alla luce i retroscena di molte azioni, le connessioni d' interessi. Si delinearono i moventi. Si intuì quali potessero essere i mandanti. Sul piano giudiziario i sospetti rimasero tali. I magistrati, nonostante gli interrogatori, i pentiti, le confessioni, le verifiche incrociate, non sono riusciti a trovare una prova precisa. Il caso dell' omicidio Pecorelli è emblematico. Il giornalista, direttore della rivista Op, venne ucciso a revolverate sotto casa da un killer rimasto senza un nome e un volto. Le indagini sul suo assassinio sono rimaste arenate per lunghi anni. Poi, arrivò la svolta. Non certo decisiva, ma un contributo, una traccia importante per gli inquirenti. La traccia erano due pistole, con il numero di matricola cancellato. Erano state trovate in un sotterraneo del ministero della Sanità. Un vero e proprio arsenale, un deposito dal quale potevano attingere sia i neri che la criminalità romana legata alla potente banda della Magliana. Le pistole vennero periziate. Si voleva dimostrare che avevano ucciso Pecorelli. Ma entrambe vennero contraffatte. Avevano il percussore limato. Da un perito. Grosso scandalo che ha fatto sfumare la nuova occasione di verità. Potenza della banda? Nel marzo scorso, il ruolo di questa organizzazione viene ben dipinto dal giudice Sica, nel frattempo nominato Alto commissario per la lotta alla mafia. Insieme a colleghi come Loris D' Ambrosio e Francesco Misiani, tutti esperti in eversione nera e criminalità comune, collegò vari episodi e trasse una prima, inquietante conclusione. Attorno alla banda della Magliana è nata una agenzia del crimine. Un' organizzazione, precisò, che funziona da dieci-quindici anni, composta da un numero limitato di persone in grado di gestire le grandi linee del crimine. Un' agenzia, dunque, ricca di elementi di informazione, con i quali può influire su ambienti diversi, a ogni livello. Ricattando, anche. Il coinvolgimento di Valerio Giusva Fioravanti e di Gilberto Cavallini come gli autori materiali del delitto Mattarella, oggi conferma l' intreccio tra eversione di destra e criminalità comune. E la costante presenza di Pippo Calò, in quasi tutte le inchieste sulle stragi e gli attentati, torna a dare forza all' ipotesi dell' Alto commissario. Il legame criminalità-neri nacque all' inizio degli anni Ottanta, quando la spinta terrorista si stava esaurendo. Le indagini sui mandanti dei delitti eccellenti è appena agli inizi. Ma il pool guidato da Domenico Sica è convinto che nel giro di pochi mesi si troveranno le prove per dimostrare il teorema sull' agenzia del crimine. Siamo ad un passo dalla svolta anche per gli altri grandi omicidi eccellenti? I magistrati dell' Alto commissariato sono cauti ma fiduciosi. Si lavora pure sull' intricata matassa del delitto Ligato, un caso difficile e intrigato. Anche se la burocrazia intralcia lo sforzo degli inquirenti. L' ufficio istruzione di Palermo ha rispedito alla procura i fascicoli dell' inchiesta su Mattarella. Il consigliere Antonino Meli ha rilevato un' irregolarità formale: il rapporto di 130 pagine spedito da Sica è privo della sua firma. E solo quando il dossier sarà sottoscritto il processo sarà restituito regolarmente all' ufficio istruzione.
di DANIELE MASTROGIACOMO
15 settembre 1989 11 sez.
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I servizi segreti: le mafie a Vicenza
Di Marco Milioni | Lunedi 9 Maggio 2011 alle 15:20 | 0 commenti
Versione integrale dell'intervista pubblicata parzialmente su VicenzaPiù e Ovest-Alto Vicentino n. 213 in distibuzione e scaricabile in pdf qui.
Cosca nostra
I clan mafiosi avrebbero stabilito da tempo contatti di alto profilo con il mondo dell'economia, della politica e delle istituzioni.
Mafia e Mafia spa: quando dal resto del Paese arrivano a Vicenza personaggi noti o meno a raccontare il fenomeno, più o meno inevitabilmente, si finisce per parlare di storie che giungono principalmente dal sud Italia, quasi si pensasse a esorcizzare un fenomeno che l'inconscio, più che la cronaca, vuole in qualche maniera tener lontano dal nostro territorio. Ma le cose non stanno esattamente così.
La penetrazione economica dei clan nel Nord Italia è un fatto assodato. Le inchieste delle procure antimafia sulle cosche calabresi in Lombardia hanno aperto uno spaccato conosciuto dagli addetti ai lavori, ma ignorato dai più. All'inizio di aprile due importanti operazioni anti-camorra hanno fatto in modo che i media veneti accendessero i fari in particolare su Padova e Vicenza: la prima volta nel caso che ha coinvolto la nota ditta Tpa; la seconda per il coinvolgimento di Ivano Corradin, uno dei consulenti tributari più conosciuti della provincia berica. Ma la criminalità organizzata quanto è dentro al tessuto veneto? E quanto è dentro al tessuto vicentino in particolare? «L'infiltrazione c'è. È di alto profilo ed è ben più estesa di quanto si possa pensare. Ha cominciato a radicarsi sul finire dei Settanta». A parlare così è un operativo dei servizi segreti italiani, del quale chi scrive per riservatezza non può rivelare grado, funzione né tanto meno agenzia di appartenenza. All'uomo, che ha acconsentito di rendere nota una parte del suo pensiero sulla questione delle mafie nel Settentrione, VicenzaPiù si rivolgerà con l'appellativo convenzionale di tenente Francesco Lorenzi, un nome di fantasia e di circostanza.
Allora tenente, si è letto sui giornali delle due recenti vicende che hanno coinvolto il Veneto e il Vicentino in particolare? Che idea s'è fatto?
«Nel Veneto la mafia è radicata. Quanto uscito in queste settimane non è che la punta dell'iceberg. In un Paese come il nostro in cui un terzo dell'economia alla spiccia è illegale che cosa pretende?»
Lorenzi, questo è un quadro inquietante, lei non lascia molto spazio all'immaginario. Ma davvero le cose stanno così?
«Lei provi a tenere sott'occhio nei modi dovuti una qualsiasi attività dal medio piccolo in su. E poi vedrà. Se per assurdo avessimo un sistema repressivo tanto efficiente da condannare solo metà delle responsabilità, penali l'economia avrebbe un tracollo, almeno inizialmente. È un viluppo venefico nel quale si fa fatica a discernere ciò che è buono da ciò che è cattivo. E il Veneto non fa eccezione».
Da quello che lei dice mi pare di capire quindi che si può parlare di malavita organizzata non tanto per come la si conosce al sud. O meglio dal sud si sarebbe esportata pressoché solo la mafia dei colletti bianchi. Mi sabglio?
«Analisi corretta ma parziale. Il terreno è fruttifero per questi signori perché otto volte su su dieci anche i territori del nord sono retti da congreghe politico-affaristiche che hanno molti tratti del mafioso, persino quando non delinquono. Anzi sta lì loro forza, un tempo queste elite si chiamavano borghesia mafiosa. E con delle controparti del genere ci si mette quasi sempre d'accordo»
Ma nel Veneto dove si sono infiltrate le mafie?
«Lasciando da parte i santuari che non sono stati scoperchiati dalle indagini sulla mala del Brenta, la cosiddetta filiera del cemento è uno dei canali più importanti. Cave, calcestruzzo, scavi e movimento terra, subappaltatori nel mondo delle costruzioni e della sanità, trasporti vari, specie quelli di rifiuti. I clan si muovono con un doppio fine. Lavare il danaro sporco o investire in attività lecite. Non sono infrequenti subappalti riconducibili ad aziende mafiose a servizio di enti pubblici o società controllate dagli enti pubblici. Non sono infrequenti nemmeno le attività di finanziarie che si occupano di prestiti e leasing e non mancano nemmeno le occasioni per arricchirsi coi fallimenti pilotati. A volte i capitalisti mafiosi investono in solitaria, a volte investono con soci locali, a volte si occultano dietro di loro. Ormai lo sanno anche i sassi. E per fare questo ovviamente gli enti locali debbono gioco forza partorire una politica del territorio e dell'ambiente che garantisca questi interessi. Nel Vicentino i casi abbondano. Ma non dico quanti ne abbiamo messi nel mirino perché non voglio si risalga al mio lavoro».
E che cosa c'è nel passato di Vicenza?
«Posso parlare di realtà che ho analizzato di persona. Negli anni Ottanta e Novanta anche il settore orafo ha fatto la sua parte e alla grande. Il metallo prezioso è particolarmente utile a riciclare danaro sporco e nel Vicentino, proprio per la presenza di una solidissima industria del gioiello, l'oro è circolato a fiumi. Abbiamo notato la presenza di società aperte appositamente solo per questo scopo. Le mafie hanno riciclato l'oro nero delle imprese vicentine e con lo stesso oro hanno lavato i proventi soprattutto del traffico degli stupefacenti e del pizzo. E ancora, l'intero settore dello smaltimento dei rifiuti è un settore di grandi affari, specie per i camorristi: una bella fetta di imprese venete o vicentine senza questi incentivi illegali chiuderebbe i battenti. Questo è un santuario inviolabile per chiunque volesse fare chiarezza. Ed è un terreno particolarmente viscido tra l'altro perché da tempo abbiamo attenzionato un sodalizio informale tra malavitosi, imprenditori e amministratori locali; sodalizio che ha una sponda di altissimo profilo in regione e a Roma. Abbiamo tenuto d'occhio persino qualche sindacalista che in camera caritatis ti spiega senza vergogna che piuttosto che chiudere un'azienda per via della crisi è meglio che arrivino i capitali mafiosi».
Tenente, lei parla di un fenomeno di vaste proporzioni, ma almeno il denaro lascia ben delle tracce. Quello che lei dice comporta inevitabilmente il coinvolgimento di pezzi del mondo bancario. Significa che in quel mondo c'è qualcuno che scientemente omette di segnalare operazioni sospette?
«Veda un po' lei... Faccio un esempio astratto ma di scuola. Mi spiega come può una semplice srl acquistare metri migliaia e migliaia di metri quadrati quando ha solo 10.000 euro di capitale versato e un bilancio da sagra paesana? Quando operazioni immobiliari del genere avvengono, la piccola srl vanta spessissimo una garanzia bancaria da parte di una seconda società, di frequente una fiduciaria, riconducibile più o meno direttamente alla malavita. L'uomo giusto al posto giusto nella banca, magari con l'avallo dei superiori, sa che da quella operazione non si correranno rischi perché ci sono capitali opachi ma di sicuro appeal finanziario. In questo caso dovrebbero partire le segnalazioni, in primis alla Banca d'Italia, la quale se agisse sempre con i poteri che le concede la legge costituirebbe un argine di non poco conto».
E invece?
«E invece pecunia non olet».
Mi tolga una curiosità. Lei parla di presenza radicata anche nel Vicentino. Ora una presenza del genere viene assicurata anche grazie all'opera di referenti locali. Giusto o sbagliato?
«Giusto. Per quanto concerne la droga, lo spaccio minuto è in mano a piccole organizzazioni di stranieri o di stranieri ed italiani. Sono poco piccoli delinquenti, a volte poco più che sbandati, a loro volta controllati da cartelli della mala africana o dell'Est Europa. Sopra di loro però ci sono i drug-boss locali che acquistano direttamente dai clan calabresi. Questi boss locali sono personaggi influenti che hanno anche altre attività economiche nonché contatti non infrequenti con i politici e gli amministratori. Le cosche della 'ndrangheta però hanno comunque nel Veneto come nel Vicentino le loro antenne. Osservano la dinamica del mercato in modo da contrattare su prezzo e modalità dello spaccio. Cercano di garantire il loro marchio qualità, specie della coca. Questo avviene per i giri più importanti».
Ma esistono anche referenti locali delle stesse organizzazioni?
«Ovviamente sì. Le organizzazioni, tutte le organizzazioni, non hanno alcun interesse a violare un santuario come Vicenza, per cui si mettono d'accordo quando hanno in prospettiva un business da spartire. E a Vicenza i loro referenti più o meno storici sono personalità spesso conosciute. Soggetti che si incistano tra l'economia, la politica e i circoli del potere. Alcuni di questi circoli sono massonici: o meglio sono pseudo-massonici o para-massonici. I referenti di prima categoria sono una quarantina tra avvocati, notai, architetti, consulenti fiscali, commercialisti e simili, geometri, faccendieri, immobiliaristi, dirigenti pubblici, imprenditori, professionisti vari e altra gente apparentemente assai rispettabile, i quali se necessario parlano senza problemi con politici e amministratori locali».
Può fare qualche esempio?
«Si figuri se le faccio dei nomi perché tanto anche lei ne conosce un bel po'. Lo dico simpaticamente, non mi prenda per fesso. Il mio ragionamento è un altro. Ma lei ha visto quanto è urbanizzata la provincia di Vicenza? Proprio il vostro giornale ha fatto riferimento in più occasione ai dati dell'osservatorio di Novoledo. Lei ha notato in questi anni lo sviluppo abnorme sull'Altopiano di Asiago? E il Bassanese? I centri commerciali nati come funghi? Le terre tossiche, i fanghi, le terre di fonderia ficcate sotto le rotatorie? Le zone residenziali nell'Ovest Vicentino o attorno alla cintura urbana di Vicenza? I maxi progetti apparentemente senza senso anche nel capoluogo? Per non parlare di ciò che si sta preparando all'orizzonte per la Pedemontana per la quale l'odore dei subappalti mafiosi comincia a sentirsi e forte... Secondo lei tutta questa massa di danaro è solo autoctona?»
Ma le mafie non temono la crisi?
«No perché alla fine la loro è un'economia di rapina non di creazione, sempre postulando che l'accezione dello sviluppo economico abbia un senso».
A questo punto mi pare di capire che le organizzazioni oltre a lavare il denaro sporco con operazioni solo apparentemente senza profitto, puntino ad incanalare l'economia entro un alveo controllato dalle stesse mafie. E in questo senso la crisi è una opportunità non una iattura. I clan si comportano quindi come i cartelli e i trust dell'Ottocento. In ultima analisi tendono al monopolio o all'oligopolio. Condivide?
«Condivido. È in fondo la loro natura. E Vicenza deve temere più di ogni altra cosa questa prospettiva visto che alla lunga rischia anche di essere colonizzata in questo senso. Poi si sa. Imprese ed imprese mafiose sul piano ontologico non si distinguono così tanto poi. Cambia solo il quadro di riferimento rispetto alla legge, la quale spesso però è inapplicata, inapplicabile, oppure applicata contra o ad personam anche senza la mafia. Questo però è un ragionamento quasi metapolitico... Non mi pare questa la sede. In realtà mi preme fare un'altra osservazione».
Quale?
Io mi rifiuto di pensare che i giornalisti vicentini sappiano così poco. Per questo ho seri dubbi sui mass media».
Ok, Lorenzi condivido. Però anche i servizi ci mettono del loro visto che hanno o hanno avuto molti miei colleghi a libro paga: mi risulta anche veneti. Le interessa questo argomento? Io non difendo la corporazione, però se si apre il cassetto lo si apre tutto. Ne conviene?
«Touché. Chiedo venia. Ognuno ha le sue rogne in casa per carità».
Lei prima voleva fare un'osservazione, sta tentennando per caso?
«Assolutamente no. In realtà la mia è solo una constatazione. Pochi giorni fa la stampa veneta ha dedicato pagine su pagine alla vicenda di Franco Caccaro, la cui azienda in qualche maniera viene considerata dagli inquirenti nelle fodere della camorra. Bene una situazione per certi aspetti molto simile è capitata ad una persona che è stata accusata dalla magistratura di avere custodito i beni del clan siciliano dei Lo Piccolo. A questa persona i media hanno riservato in proporzione uno spazio infinitesimamente minore. Come mai? Quanto pesano i potentati che si potrebbero stare dietro l'intera vicenda? E sto parlando di un soggetto non è di poco conto visto che oggi è il presidente de Vicenza Calcio».
Lei parla di Danilo Preto? Le faccio notare che anche la politica come il mondo delle imprese sono stati ugualmente in silenzio nella vicenda Preto.
«Sì, concordo. Ma mi domando: che cosa avrebbero scritto i giornali se la stessa accusa fosse capitata sulla testa del presidente dell'Inter, del Milan o della Juve?»
Vuole dire che, come ci può essere una regia nel gestire le informazioni, ci può essere una regia nelle istituzioni nel non disturbare le attività in odore di mafia?
«Veda un po'. Io ho già detto troppo. Vorrei tornare a casa».
Un'ultima cosa. Come fa a restare in servizio se tutto il mondo è alla rovescia?
«Non so darmi una risposta. Una volta che entri nel gioco ne fai parte. Sta a te poi diventare parte dell'andazzo oppure fare per quanto possibile le cose per bene, facendo attenzione a non prenderti gli schizzi di merda che ti arrivano più o meno da vicino».
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CROAZIA: Adriatic Connection. La Mala del Brenta e Franjo Tudjman
Posted 15 SETTEMBRE 2010 in CROAZIA, MAFIJA with 0 COMMENTS
di Federico Resler
“Faccia d’Angelo”: così veniva chiamato Felice Maniero, capo della “Mala del Brenta”, l’organizzazione criminale che ha messo a ferro e fuoco il Veneto tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’90. Una vera e propria mafia, capace di unire atti criminali, speculazioni finanziarie e proiezioni internazionali: sotto la guida di Maniero la “Mala del Brenta” rivolge il suo interesse ai Balcani, scossi dalla sanguinosa guerra civile.
La scelta dei criminali veneti cade sulla Croazia: a poche miglia dalle coste veneziane, è governata da Franjo Tudjman, presidente fascistoide e familista. Al suo fianco c’è infatti il figlio Miroslav: messo a capo dei servizi segreti croati, è protagonista di mille intrallazzi e traffici criminali. Ed è soprattutto il contatto privilegiato di Maniero nella repubblica ex jugoslava: stretti da un’amicizia fraterna, i due mettono su un prosperoso commercio d’armi. Lo snodo logistico principale di questa attività di contrabbando è il porto di Chioggia, in provincia di Venezia: relativamente piccolo e al di fuori delle grandi rotte mercantili è l’ideale per fare affari in maniera indisturbata.
Maniero diventa così di casa a Zagabria e dintorni: investe nel settore immobiliare in Istria e richiede la cittadinanza croata. Gli amici balcanici non si dimenticano di lui nemmeno quando viene arrestato e rinchiuso in carcere dalla polizia italiana: voci ben informate affermano che i corpi speciali croati abbiano preso parte, perlomeno dal punto di vista organizzativo, ad una delle rocambolesche evasioni di “Faccia d’Angelo”.
Un romanzo criminale, quello di Maniero e della Croazia di Tudjman, interrotto solo dal definitivo arresto del boss di Campolongo Maggiore e dalla sua conversione a collaboratore di giustizia.
da East Journal
venerdì 4 gennaio 2013
banditi e servizi