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IN EUROPA E NELLE AMERICHE
Trafficanti e corrotti
(da ‘Le Monde Diplomatique’, 2000)
«Quando non conosce una fine violenta, la maggior parte dei narcotrafficanti che ho mandato in galera torna in libertà (...) Quanto agli uomini della finanza i cui nomi sono comparsi nel quadro delle inchieste sul riciclaggio dei proventi della droga, non vengono neppure inquisiti» (1). Commissario di polizia svizzero, specialista di lotta alla droga, Fausto Cattaneo è uno degli agenti di penetrazione delle reti di trafficanti più decorati della sua generazione. Racconta «le relazioni inconfessabili che uniscono i cartelli della droga ai mondi delle banche, della finanza, della politica a certe frange della polizia e dei servizi segreti».
Nel suo libro si intrecciano la nebulosa delle mafie, i magistrati prudenti, il gruppo Fininvest di Berlusconi, il Vaticano, e una «morale della storia»: «Tutte le strade portano ai riciclaggi svizzeri».
Tutte le strade portano anche alle Forze armate rivoluzionarie di Colombia (Farc)? Sì, affermano la leggenda nera della «narcoguerriglia» e alcune mosche cocchiere che, su questo paese, ribadiscono i luoghi comuni: «le guerriglie hanno accresciuto la loro potenza nel momento stesso in cui la loro dimensione ideologica si indeboliva ed esse andavano alla deriva verso il crimine organizzato» (2).
Descrivendo l'esatta natura delle loro relazioni, Jean-François Boyer ricorda come (3) i «commercianti» del cartello di Cali, alla fine degli anni '80, abbiano preso piede in alta Amazzonia, accettando le condizioni loro imposte dalle Farc. «Sono pronti a pagare la tassa rivoluzionaria». Ben diversa la scelta di Carlos Castano, capo dei paramilitari, che «possiede propri laboratori di cocaina (e) gioca il ruolo di giudice di pace (...) quando si presenta un conflitto (tra narcos)». Anche se, come nota l'autore, alcuni quadri delleFarc, trasgredendo alle regole della loro organizzazione, hanno stretto accordi contro natura, localmente, con le mafie. E riporta anche come nel Messico di Carlos Salinas de Gortari «le privatizzazioni del periodo 1989-1995 (...) abbiano permesso ai narcos, con la complicità dello stato e dei narcopolitici, di diventare una potenza economica legale». Ricordando che il sistema bancario americano ricicla la metà dei 500-1000 miliardi di dollari frutto delle attività criminali, l'autore evoca il finanziamento della campagna elettorale del presidente colombiano Ernesto Samper, nel 1994 , da parte del cartello di Cali.
Vivaci polemiche ha suscitato il racconto autobiografico della senatrice colombiana Ingrid Betancourt (4), che ha fortemente irritato tutti coloro che vogliono vedere nella nazione andina solo una «democrazia» presa in ostaggio da «gruppi criminali armati». La senatrice si mostra assai critica nei confronti delle guerriglie, ma lancia anche gravi accuse contro una classe di uomini politici «senza autorevolezza, senza ideali, interessati solo al potere e al denaro», come l'ex presidente Samper. E scrive «Il popolo colombiano oggi si sente impotente davanti a questi corrotti che, con il pretesto di prendere in mano il suo destino, glielo hanno confiscato».
Maurice Lemoine
(1) Fausto Cattaneo, Comment j'ai infiltré les cartels de la drogue,Albin Michel, Parigi, 2001, 345 pagine, F. 120.
(2) Yvon Le Bot, «Quel zapatisme après le zapatisme?», Le Monde,8 marzo 2001.
(3) Jean-François Boyer, La Guerre perdue contre la drogue, La Découverte,Parigi, 2001, 256 pagine, 130 F.
(4) Ingrid Betancourt, La Rage au coeur, XO Editions, Parigi, 249 pagine, 119 F.
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Criminalité financière
Dal riciclaggio alle crisi finanziarie
(da ‘Le Monde Diplomatique’, 2000)
Il moltiplicarsi dei casi di appropriazione indebita di crediti internazionali, in particolare in Russia e in Indonesia, costringe a interrogarsi sui legami fra crisi finanziarie e riciclaggio, nel momento in cui il Fondo monetario internazionale (Fmi) valuta la massa di denaro sporco fra i 590 e i 1500 miliardi di dollari, pari rispettivamente all'1% e al 5% del prodotto interno lordo (Pil) mondiale (1). Il sistema finanziario internazionale, che si è globalizzato nel dopo guerra fredda, riposa su due postulati che si annullano a vicenda.
Il primo consiste nel supporre che la liberalizzazione dei flussi di capitali ottimizzerà l'allocazione delle risorse a livello mondiale. Un'asserzione teoricamente discutibile, come è stato sottolineato da un economista irreprensibilmente liberale come Jagdish Bhagwati (2), ed empiricamente inesatta, come attestano numerosi rapporti ufficiali (Banca mondiale, Programma delle Nazioni unite per lo sviluppo, ecc.). Il secondo postulato considerava come acquisita o secondaria nei paesi detti "in transizione" quell'infrastruttura giuridica e prudenziale che aveva permesso di mettere in opera la liberalizzazione dei flussi finanziari fra l'America del Nord, l'Europa e il Giappone. La coesistenza fra totale libertà di circolazione dei capitali e mantenimento dei sistemi di supervisione nazionale, e l'esistenza di centri finanziari off-shore ha quindi creato, fin da allora, uno spazio sconosciuto nel quale sarebbero poi prosperate tutte le forme di delinquenza transnazionale. (3)
L'extraterritorialità della quale beneficiano la maggior parte di questi centri sotto il profilo giuridico ha così svolto un ruolo non trascurabile nelle crisi finanziarie di questi ultimi anni. Il caso della Russia dimostra fino a qual punto le fughe di capitali, la distrazione di fondi, i profitti del racket, del saccheggio dei beni pubblici, della corruzione e del crimine organizzato possano essere reinvestiti nel finanziamento estero di quel debito pubblico che essi stessi hanno ampiamente contribuito a creare. Le deviazioni rapaci, cleptocratiche e, alla fine, mafiose, che si sono tradotte in una grande domanda di riciclaggio sul mercato internazionale dei titoli fra i quali rientrano i buoni del Tesoro russo sono direttamente all'origine della crisi finanziaria del 1998 (4).
Allo stesso modo, la crisi messicana del 1994-1995 e l'"effetto tequila" che essa ha scatenato negli altri paesi dell'America latina acquistano tutto il loro significato solo se li si valuta alla luce del più sommerso "effetto cocaina". I trafficanti messicani, raccogliendo fin dall'inizio degli anni '90 più della metà del fatturato della droga colombiana esportata verso gli Stati uniti, portavano in patria ogni anno una somma dai tre agli otto miliardi di dollari, superiore al ricavato delle esportazioni di petrolio. Una parte di questi fondi avrebbe alimentato l'ostentazione di beni di consumo di lusso americani. Il resto veniva riciclato nel commercio al dettaglio, nel settore degli immobili di prestigio e nel mercato "grigio" della valuta e dei titoli, che impone commissioni dal 10% al 15% per il servizio di riciclaggio. Le privatizzazioni intraprese sotto la presidenza di Carlos Salinas (1988-1994) fornirono il destro per riciclare i narcoprofitti, soprattutto nel settore bancario, nel quale lo stato ha liquidato una serie di istituti per un totale di 12 miliardi di dollari. Dopo la crisi del 1994-1995, questi istituti si sarebbero ritrovati con debiti per più di 120 miliardi di dollari, a carico, beninteso, dei contribuenti...
In questa vicenda il riciclaggio si combina con la dinamica dei flussi di capitale internazionali a breve termine, creando un eccesso di liquidità dell'economia e una "bolla speculativa" nei settori immobiliare e borsistico. Pur non rappresentando, all'inizio, che una quota dall'1% al 3% del Pil messicano, i narcodollari, nel commercio minuto come nel settore bancario, falsano la concorrenza a vantaggio dei clan mafiosi. Il "premio di riciclaggio" del quale dispongono permette loro di essere in effetti più competitivi e, al bisogno, di assorbire i propri concorrenti, pur privilegiando gli investimenti speculativi a breve termine. D'altra parte, l'accesso al credito permette al tempo stesso di riciclare i capitali di origine sospetta e di moltiplicarne l'impatto.
Lungi dal migliorare la competitività generale dell'economia in termini di esportazioni, o di contribuire ad alleviare il debito estero, il riciclaggio accentua l'importazione di beni di consumo e trascura la sfera produttiva a vantaggio degli investimenti a breve termine. L'iniezione di narcodollari ha contribuito in tal modo a detereiorare gli scambi con l'estero e ad affrettare i fallimenti, la svalutazione e, alla fine, la crisi finanziaria del 1994-1995.
La Thailandia, dalla quale è partita la crisi asiatica del 1997, ha conosciuto uno scenario simile. Secondo uno studio pubblicato da tre ricercatori dell'Università di Chulalongkorn (5), una quota dall'8% all'11% del Pil tailandese era controllata, alla vigilia del crollo, dai clan del crimine organizzato che traevano i propri profitti principalmente dai giochi illeciti e dalla prostituzione e, in via accessoria, dal traffico di stupefacenti esportati dalla Birmania. E, come in Messico, l'afflusso dei capitali stranieri a breve termine, transitando in via preferenziale dalla Bangkok Offshore Banking Facility, ha accelerato la dinamica speculativa locale, limitando l'orizzonte degli investimenti a detrimento dei settori produttivi e esportatori. Il deterioramento dei conti con l'estero che ne è seguito, aggravato dal rialzo del dollaro e dalle strozzature degli sbocchi all'esportazione nel 1996, ha precipitato la svalutazione del baht.
Ma il sistema politico e finanziario locale ha fatto anch'esso la sua parte, favorendo in modo massiccio il riciclaggio dei profitti illeciti e mafiosi. Alla fine del 1999, dopo che il Pil tailandese nel 1998 si era ridotto del 10%, e che l'eccesso di offerta immobiliare era stimato a più di 300.000 unità nella regione di Bangkok, i prezzi di vendita non erano diminuiti (6). Questa stabilità, incomprensibile in termini di leggi del mercato, diventa intelligibile se vi si individua l'influenza dei circuiti di riciclaggio e dei ritardi da essa provocati nel risanamento del settore finanziario.
Yakuza e speculazione
Questo ritardo può essere osservato anche in Giappone, seconda economia mondiale. Si conosce ormai con precisione il ruolo delle yakuza nella formazione della bolla speculativa degli anni 1980 (7). Controllando il traffico di stupefacenti, la prostituzione, le assunzioni nei settori edile e dei lavori pubblici, così come una quota dell'industria molto redditizia dei pachinko (8), quei biliardi elettrici il cui fatturato è pari a una volta e mezzo quello dell'industria automobilistica giapponese, ovvero a più del 6% del Pil questi clan del crimine organizzato hanno investito le cooperative immobiliari (jusen), le grandi società di intermediazione finanziaria e le assemblee di azionisti di certe imprese. L'accesso al credito ha permesso loro di riciclare i propri profitti in settori speculativi, nei quali privilegiano le operazioni ad alto rischio.
L'esplosione della bolla speculativa, all'inizio degli anni 90, si è tradotta in un crollo dei corsi azionari e dei prezzi immobiliari e in un'impennata delle sofferenze delle banche e degli istituti di credito. Raisuke Miyawaki, ex direttore dell'Agenzia nazionale di polizia, stima che il 10% di questi crediti sia imputabile agli yakuza, e che il 30% supplementare abbia dei legami probabili con il crimine organizzato: l'ammontare dei debiti non esigibili dei gangster si situa su valori fra i 75 e i 300 miliardi di dollari, pari al 6,5% del Pil nel 1996.
Dopo aver speculato al rialzo, gli yakuza hanno speculato al ribasso, tentando di acquistare beni immobili a prezzi stracciati e bloccando, con occupazioni mirate, la liquidazione del passivo di certe imprese. Ciò spiega come mai la caduta dei prezzi degli immobili in termini reali dal 30% al 70% dall'inizio degli anni '90 non si sia tradotta in un corrispondente incremento delle transazioni, ritardando così il risanamento del settore finanziario, l'offerta di credito e, in definitiva, la crescita. L'eccezionale durata della crisi giapponese, a dispetto dei numerosi piani di rilancio del governo, ogni volta di ampiezza pari a svariati punti di Pil, non può essere compresa senza far riferimento al riciclaggio e all'attività delle organizzazioni criminali, che socializzano le perdite dei loro prestiti non rimborsati e privatizzano i proventi mafiosi. Dal 1985 al 1995 il Pil giapponese è cresciuto del 52%, mentre l'insieme delle attività dell'economia progrediva dell'85%. La differenza fra queste due cifre mostra la persistenza di una bolla speculativa (9) evidentemente situata nel settore immobiliare, poiché la correzione delle quotazioni immobiliari rispetto agli anni '80 è ormai acquisita. Ed è precisamente questo il terreno prediletto delle yakuza e delle loro manovre invisibili che ritardano gli aggiustamenti del mercato.
Per quanto possano essere istruttivi, gli esempi del Messico, della Russia, della Thailandia e del Giappone non significano tuttavia che esista una relazione meccanica fra crisi finanziarie e riciclaggio. E anche se ci sono altri casi, come quelli del Venezuela, della Turchia e della Nigeria, che meriterebbero di essere analizzati nella stessa ottica, resta pur sempre vero che i profitti del crimine non sono proporzionati alla potenza dell'economia ufficiale legale. Non ancora. Per evitare di arrivare a tanto, dovrebbero esistere la volontà e gli strumenti politici per superare un sistema a due velocità i cui meccanismi di supervisione e le cui regole del gioco sono in ritardo di almeno un decennio rispetto alla rapidità dei flussi finanziari e alle capacità di elusione esistenti.
(Traduzione di A.B.)
Guilhem Fabre
* Professore alla facoltà di affari internazionali dell'Università di Le Havre ; autore di Les propsérités du crime : trafic de stupéfinats, blanchiment et crises finacières dans l'après-guerre froide. Unesco/Editions de l'Aube, La Tour-d'Aigues, 1998
(1) Si legga Financial Times, 24 settembre 1999.
(2) Si veda Jagdish Bhagwati, "The Capital Myth", Foreign Affairs, New York, maggio 1998.
(3) Si legga Jean de Maillard, Un monde sans loi. La criminalité financière en images, Stock, Parigi, 1998.
(4) Si legga Fréderic F. Clairmont, "La Russia sul bordo dell'abisso", Le Monde diplomatique/il manifesto, marzo 1999.
(5) Si legga Pasuk Phongpaichit, Sungsidh Piriyarangsan et Nualnoi Treerat, Guns, girls, gambling, ganja: Thaòland's illegal economy and public policy, Silkworm Books, Chiang Maò, 1998.
(6) Si veda l'articolo di Odile Cornet in Le MOCI, Parigi, 11 marzo 1999.
(7) Si legga Philippe Pons, Misère et crime au Japon du XVIIe siècle à nos jours, coll. "Bibliothèque des sciences humaines", Gallimard, Parigi,1999.
(8) Si veda di Thierry Ribault, "Au Japon, la folie du pachinko", Le Monde diplomatique, agosto 1998.
(9) Si legga di Teruhiko Mano, "New moves in the money and capital markets", Japan Review of International Affairs, n°4,
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Etats, mafias et transnationales comme larrons en foire (da ‘Le Monde Diplomatique’)
Abandons de souveraineté et mondialisation libérale - permettant aux capitaux de circuler sans contrôle d’un bout à l’autre de la planète - ont favorisé l’explosion d’un marché de la finance hors la loi, moteur de l’expansion capitaliste, et lubrifié par les profits de la grande criminalité.
Partenaires associés sur l’archipel planétaire du blanchiment de l’argent sale, gouvernements, mafias, compagnies bancaires et sociétés transnationales prospèrent sur les crises et se livrent au pillage du bien commun en toute impunité. Avec, de temps à autre, des opérations « poudre aux yeux » pour donner l’impression de lutter contre des paradis bancaires et fiscaux en pleine expansion, que les gouvernements, s’ils en avaient véritablement l’intention, pourraient mettre hors d’état de nuire du jour au lendemain. A la « tolérance zéro » prônée un peu partout à l’encontre des petits délinquants de la précarité et du chômage répond la « répression zéro » des grands criminels de l’argent.
par Christian de Brie, avril 2000
APERÇU
Systématiquement présentée sous forme de « scandales » mettant en cause épisodiquement, dans un pays puis un autre, une entreprise ou une banque, un responsable ou un parti politique, un cartel ou une mafia, la criminalité financière perd sa lisibilité. Cette masse de transactions relatives à des opérations illicites - qualifiées de crimes et délits au regard des lois nationales ou des accords internationaux - se réduit à une succession de dysfonctionnements accidentels de l’économie et de la démocratie libérales qu’une « bonne gouvernance » saurait résorber. Tout le contraire de ce qu’elle est en réalité : un système cohérent, intimement lié à l’expansion du capitalisme moderne, et fondé sur l’association de trois partenaires : gouvernements,entreprises transnationales, mafias. Les affaires sont les affaires : la criminalité financière est d’abord un marché, prospère et structuré, où se rencontrent offre et demande - business as usual.
Les grandes organisations criminelles ne peuvent assurer le blanchiment et le recyclage des fabuleux profits tirés de leurs activités qu’avec la complicité des milieux d’affaires et le « laisser-faire » du pouvoir politique. Pour conforter et accroître leurs positions et leurs bénéfices, écraser ou résister à la concurrence, emporter les « contrats du siècle », financer leurs opérations illicites, les entreprises transnationales ont besoin du soutien des gouvernements et de la neutralité des instances de régulation. Quant au personnel politique, directement partie prenante, son pouvoir d’intervention dépend des appuis et des financements qui garantiront sa pérennité. Cette collusion d’intérêts constitue une composante essentielle de l’économie mondiale, le lubrifiant indispensable au « bon » fonctionnement du capitalisme.
Or celui-ci a été considérablement amélioré sous l’effet de trois facteurs conjoints : la libéralisation complète des mouvements de capitaux, qui, depuis la fin des années 80, échappent à tout contrôle national ou international.
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HSBC: Secondo il rapporto, la filiale americana Hbus aveva concluso in sei anni circa 16 miliardi di dollari di transazioni segrete con l'Iran e, tra il 2007 e il 2008, la filiale messicana aveva trasferito verso Hbus circa 7 miliardi di dollari, denaro probabilmente appartenente ai cartelli della droga messicani. (Repubblica, 11/12/12)
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martedì 4 dicembre 2012
trafficanti e corrotti