un po’ di storia
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Teoria della crisi e II Internazionale
TEORIA DELLE CRISI
E 2a INTERNAZIONALE
Affrontiamo il periodo della II Internazionale non tanto a partire da elementi storici quanto sottolineandone un aspetto particolare, cioè la teoria della crisi. Questo porta a confrontarci in primo luogo con Marx, dall'altra con gli sviluppi successivi: il partito bolscevico e la IIIa Internazionale.
Elementi della teoria delle crisi in Marx
È stato spesso detto che in Marx non esiste una teoria delle crisi vera e propria, o sufficientemente sviluppata, così come non esiste un'analisi del 'ciclo' capitalistico. In realtà, se in Marx non troviamo una descrizione fenomenica delle crisi, (anche perché il III libro del Capitale nel quale questo tipo di descrizione avrebbe dovuto essere presente è come noto incompiuto), d'altra parte Marx non s'incentra tanto sulla questione fenomenica delle crisi quanto sull'analisi degli elementi fondamentali da un punto di vista teorico, e poi rispetto all'uso politico di questa Teoria. In questo senso allora sia nel 'Capitale': sia nelle 'Teorie sul plusvalore' sia in altre parti delle opere di Marx troviamo numerosissimi discorsi e sviluppi dell'analisi.
Essenzialmente gli elementi della crisi per Marx derivano dalla natura stessa del processo di produzione capitalistico: cioè il fatto che il processo di produzione si separi nella società capitalistica nei suoi tre momenti componenti, produzione, circolazione, consumo, implica già una possibilità di crisi; in quanto la separazione stessa fra questi tre momenti rappresenta già un elemento di potenziale interruzione del processo di produzione, della accumulazione e della valorizzazione del capitale, cioè una crisi.
Però l'aspetto fondamentale non è quello di definire le possibilità di crisi quanto vedere come concretamente si indirizzano e cosa significhino.
È allora necessario rifarsi a due tipi di cause, che chiamiamo le cause ultime di crisi, e in primo luogo la caduta tendenziale del saggio di profitto. Per Marx è proprio il fatto che il saggio di profitto tenda continuamente a decrescere che genera nel processo stesso dello sviluppo capitalistico degli elementi di ristagno o di squilibrio permanente tali da rendere necessarie le crisi come un momento di recupero dell'equilibrio, di ricostituzione del profitto; cioè ogni volta che il profitto, per una serie di motivi, decresce, è necessaria una crisi che col suo meccanismo, e lo vedremo nei particolari, lo riporti al valore originario. In questo senso la caduta tendenziale del saggio di profitto si presenta come causa necessaria delle crisi stesse, che si esprimono poi nei loro aspetti concreti mediate dalla separazione dei momenti della produzione.
Vediamo ad esempio che la presenza della moneta, del capitale monetario, come entità autonoma rispetto al capitale come capitale fisso - in quanto capitale industriale rappresenta già una possibilità di crisi: quando i produttori sono anche i consumatori e si scambiano le merci in base al valore d'uso non esiste possibilità di crisi. Quando invece c'è una intermediazione che è rappresentata dalla moneta, per una qualsiasi perturbazione a questo livello è possibile che chi vende non riesca a realizzare il valore della merce prodotta e in questo caso abbiamo immediatamente un tipo di crisi. Ma anche questo riconduce alla caduta del saggio di profitto: il processo è caratterizzato dal passaggio denaro-merce-denaro dove l'elemento motore è che il denaro alla fine sia maggiore del denaro all'inizio del processo. Ogni volta che questa differenza subisce una diminuzione rispetto a quello che è il suo corso naturale, abbiamo un momento di crisi.
Questo tipo di crisi avviene anche ad un'altro livello: abbiamo visto prima la separazione tra produzione e circolazione; vediamo ora in particolare la separazione fra produzione e consumo. Questa è anch'essa causa potenziale di crisi: proprio perché i capitalisti non sono in grado di prevedere la quantità della domanda totale né in generale di regolare la propria produzione sui valori d'uso ma semplicemente sui valori di scambio, e hanno quindi possibilità estremamente limitate ad esempio di diminuire la propria produzione rispetto alla necessità di consumo, si possono manifestare degli squilibri molto forti fra la produzione effettuata e la quantità di merci di cui questa produzione consiste che può essere effettivamente venduta e quindi trasformata in capitale.
Se ad esempio in un certo anno si produce molto più acciaio di quanto non ne sia la richiesta, questo significa che i capitalisti non sono in grado di realizzare il profitto sufficiente, (sia perché ne vendono solo una parte, sia perché devono abbassare i prezzi) e quindi si ha una crisi nel settore dell'acciaio che poi si ripercuote sugli altri. Marx descrive questo fenomeno dicendo semplicemente che quando questo tipo di squilibrio si riproduce ad un livello sufficientemente generalizzato diventa una crisi generale perché si impadronisce a catena di tutti i rami della produzione e diventa quindi non semplicemente momento di crisi del singolo capitalista, o del singolo settore, ma diventa una crisi generale del sistema.
Questo secondo elemento, cioè la separazione fra produzione e consumo è anche la rappresentazione di quella che è vista come un'altra delle cause ultime di crisi; cioè il fatto che in generale proprio per la natura stessa della forza lavoro e del salario, le capacità di consumo generali della società sono sempre minori delle capacità di produzione della società stessa.
Quindi anche questo elemento appare una causa ultima di crisi; quale sia poi la reale natura di questo fenomeno, e l'importanza che gli dobbiamo attribuire, lo vedremo poi concretamente riprendendo in termini generali il discorso di Marx a questo proposito, ma mediato attraverso gli sviluppi che gli hanno dato i successori. (Va intanto sottolineata la polemica di Marx contro i 'sottoconsumisti' dell'epoca, cui contrappone il fatto che le crisi all'inizio del secolo erano state precedute da aumenti salariali).
C'è un altro elemento generale da rilevare prima di passare ai successori di Marx: cioè che il modo in cui la crisi si manifesta è, almeno per Marx, in generale abbastanza occasionale e non particolarmente rilevante. Può partire da una qualsiasi causa contingente, indipendentemente dalla sua riduzione ultima al tipo di causa che avevamo prima descritto; man mano che si sviluppa introduce elementi di complessità e di gravità maggiore, proprio impadronendosi di elementi che ne erano la base, ad esempio la sproporzione fra produzione e consumo, la separazione fra produzione e circolazione, cioè tra industria e moneta; anche se non sono all'interno e all'origine della crisi stessa, la crisi se ne impadronisce e ha come effetto di innestare un fenomeno di questo tipo che aggrava la crisi e la sviluppa.
La teoria della crisi e il suo uso politico nella 2a e 3a
Internazionale
Sostanzialmente possiamo dire che vi sono tre tipi di correnti e di
impostazioni diverse a questo proposito. La prima la possiamo far risalire a Tugan-Baranowski, un economista russo che scrive la sua opera principale nel 1894: 'Sulla teoria e storia delle crisi commerciali in Inghilterra'. Una seconda tendenza è quella di Hobson e della Luxemburg. Hobson è un revisionista inglese, più rappresentativo di quella borghesia radicale e molto lucida del tipo di Ricardo che non del movimento operaio. La terza impostazione è quella di Lenin e di Bucharin, cioè del partito bolscevico. Qual'è il contenuto e l'uso politico che fanno queste correnti della teoria della crisi?
Prima di tutto Tugan-Baranowski dice che la causa fondamentale della crisi è la sproporzione fra i vari settori della produzione, e in particolare fra il settore che produce mezzi di produzione e il settore che produce mezzi di consumo (settori I e II).
La sostanza delle sue argomentazioni ha da una parte veste polemica, nel senso che comincia a cercare di mostrare che le due cause viste da Marx, cioè la caduta del saggio di profitto e il sottoconsumo non sono vere.
Per quanto riguarda la prima la sua analisi è abbastanza approssimativa. La seconda, cioè l'analisi del sottoconsumo, ha invece una serie di grossi limiti -- in sostanza è un'analisi abbastanza tautologica e statica -- ma però non è contestabile in termini economici. Cioè, e poi lo vedremo a proposito delle teorie del sottoconsumo, Tugan spiega che il sottoconsumo in generale in una società capitalistica non è mai l'elemento determinante della crisi perché è sempre possibile una riproduzione allargata del capitale, sia con capitale variabile, cioè forza-lavoro, sia soprattutto con capitale fisso, cioè con lo scambio interno fra i capitalisti, e quindi l'elemento consumo da parte dei salariati non è mai determinante.
Le obiezioni che vengono fatte a questo proposito sia dagli ortodossi di allora, tipo Kautsky, sia dai più moderni, sono obiezioni sostanzialmente di metodo, cioè dicono: «il consumo è la causa ultima della produzione, qui invece c'è un momento di separazione fra la produzione ed il consumo, quindi la teoria è sbagliata», ma la tesi non viene però contestata nella sua sostanza. Quello che invece è poi l'apporto specifico di Tugan, cioè la sproporzione tra i vari settori come causa delle crisi, è invece più facilmente contestabile, ed ha anche un peso politico che ha avuto e che continua ad avere nel movimento operaio non è tanto dovuta al suo contenuto in sé, che in realtà è abbastanza limitato, quanto per l'uso politico che se ne può fare.
In sostanza cioè le sperequazioni fra i diversi settori derivano da una mancanza di pianificazione da parte del capitale. Se noi prendiamo elementi già in atto a quel tempo, come la crescita dei monopoli, un certo tipo di funzione dello Stato, la concentrazione e centralizzazione del capitale, vediamo che si sviluppano, per lo meno a livello di economie nazionali, tutta una serie di elementi di pianificazione che tendono a ridurre questa incapacità di pianificare la produzione rispetto ad un consumo di un certo tipo. Anche perché i soggetti che poi agiscono sono in numero minore e molto più ampi e influenti di quanto non fossero in precedenza. Per Tugan questo allora vuol dire che già il capitalismo stesso nella sua evoluzione è in grado di superare la crisi. Le crisi non sono cioè un fatto necessario per il capitalismo in questo suo sviluppo, quindi occorre evitare le crisi coi conseguenti peggioramenti delle condizioni di vita della classe operaia; così si favorisce il benessere della classe operaia, che anche se limitato è però continuo e sicuro, ed occorre allora aiutare questa evoluzione del capitalismo che si espande in senso 'benefico'.
Questo tipo di uso politico è anche il motivo principale per cui le teorie di Tugan vengono sostanzialmente accettate a livello della II Internazionale, in particolare da Bernstein e in seguito anche da una serie di teorici - all'inizio dallo stesso Kautsky. Di fatto l'interpretazione più coerente viene data da Bernstein, il quale spiega che il compito della classe operaia, visto che le crisi non ci saranno più e il capitalismo non tende al crollo, non è quello di fare uso violento delle crisi per generare la rivoluzione: ma basta una evoluzione pacifica e graduale della classe operaia che per la sua maturità e coscienza ha la possibilità di impadronirsi anche gradualmente della società, che già di per sé si trasforma in modo tale da venire incontro alle esigenze operaie.
È contro questo tipo di teorie di Tugan che polemizzano duramente da una parte Bucharin e dall'altra la Luxemburg.
La polemica della Luxemburg è basata sulla concezione sua tipica che sostanzialmente è riassumibile in questi termini. Il capitalismo di per sé inteso come sistema chiuso di rapporti capitalistici di produzione non è in grado di sopravvivere, perché nell'ambito di questo sistema chiuso non è possibile la realizzazione del plusvalore; cioè la Luxemburg prende gli schemi di riproduzione di Marx e dice: 'se i capitalisti investono la loro parte di plusvalore, e i lavoratori consumano la propria quota, il plusvalore dei capitalisti
allora come fa ad essere realizzato?'. La soluzione che dà la Luxemburg a questo problema è che il capitalismo si nutre sostanzialmente di economie esterne ad esso, di strutture sociali esterne. In sostanza man mano che il capitalismo si sviluppa esce dall'ambito nazionale, si allarga e conquista man mano le aree non ancora capitalistiche e in questo processo arriva a far diventare tutto il mondo capitalistico, in questo stesso momento arriva a morire proprio perché non ha più possibilità di sopravvivenza, di sviluppo, perché non è più in grado di realizzare il plusvalore.
Qual'è la sostanza politica di questo processo? È duplice nel senso che da una parte non è indolore ma è contrassegnato da numerose crisi; man mano che il capitale incontra un limite al proprio sviluppo si scontra con le economie esterne, e questo è già uno scontro violento, è una trasformazione violenta dei rapporti sociali preesistenti; dall'altra vi sono tutta una serie di crisi all'interno dei vari paesi 'metropolitani' man mano che il capitalismo si allarga e quindi si restringono contemporaneamente le possibilità del suo proprio sviluppo; si hanno allora una serie di crisi sempre crescenti e quindi già prima del momento finale del crollo si ha il momento della rivoluzione, nella misura in cui tutto il proletariato, tutta la popolazione, si rende conto della contraddizione antagonistica dei propri interessi con quelli del capitale e opera la rivoluzione. L'altra faccia di questo tipo di discorso é che il processo attraverso cui si sviluppa questa coscienza delle masse è un processo non solo necessario, non solo inevitabile, ma anche sostanzialmente abbastanza scontato nella stessa misura in cui è la stessa azione violenta del capitale che genera una reazione violenta sia all'interno che all'esterno del paese stesso. Questa poi è in realtà una tesi del sottoconsumo nel senso che il capitale non è in grado di realizzare il plusvalore perché non esistono acquirenti del plusvalore stesso. Questa teoria, condivisa sostanzialmente anche da Hobson, ha anche un carattere dualistico nel senso che distingue il mondo in due parti: una in cui sono affermati i rapporti capitalistici di produzione ed una in cui non lo sono ancora.
(Questo tipo di tesi informerà poi anche le posizioni della 3a Internazionale sulla questione coloniale, in particolare con Roy).
Il terzo tipo di analisi è quella di Lenin e Bucharin, che si basa essenzialmente sull'anarchia del capitale.
Cioè già Marx nel 'Capitale' parlava di « piano nella fabbrica, anarchia nella società », ora Lenin accentua questo elemento come determinante della crisi nella fase nuova dello sviluppo mondiale, cioè nella fase dell'imperialismo.
Importante è vedere in primo luogo da cosa nasce questo tipo di rapporto e qual'è il carattere dell'analisi. Per Lenin l'imperialismo è caratterizzato fondamentalmente da cinque elementi che sono:
1) la concentrazione della produzione e del capitale e quindi la
formazione dei monopoli;
2)la fusione fra capitale bancario ed industriale;
3)l'esportazione di capitali che diventa prevalente rispetto all'esportazione di merci;
4)la formazione di oligopoli internazionali che si spartiscono il mondo;
5)la ripartizione compiuta del mondo fra le grandi potenze capitalistiche.
Conviene precisare il peso che Lenin dà ai vari elementi.
In primo luogo l'elemento fondamentale è l'esistenza dei monopoli, l'imperialismo viene anzi definito come il capitalismo nella sua fase monopolistica. Rispetto agli altri fattori, Lenin accentua molto, seguendo Hilferding (e in sostanza l'analisi dell'imperialismo di Lenin è basata su quella di Hobson e Hilferding), la funzione del capitale finanziario rispetto a quello industriale; cioè dice che l'epoca attuale è caratterizzata dal fatto é che il capitale finanziario che domina l'economia non è più il capitale industriale, anche se i due sono fusi insieme, ma concretamente in termini di classe significa che non è più la classe dei capitalisti industriali che domina ma è la classe dei capitalisti finanziari, al limite i rentiers, gli staccatori di cedole.
Rispetto alla ripartizione della terra fra le potenze imperialistiche va notato che non è una ripartizione compiuta un volta per tutte: cioè, non è affatto stabile, ma si modifica man mano che si modificano i rapporti di forza. Lenin osserva che la concorrenza che esprime dell'anarchia del mercato capitalistico sparisce nella misura in cui subentra il monopolio; però scompare la concorrenza preesistente ma riappare sotto altra forma, cioè come lotta tra i grandi oligopoli, non più concentrata a livello nazionale ma salita a livello internazionale.
È la lotta per la spartizione dei mercati, delle aree di investimento, è riproduzione ad un livello superiore della concorrenza e quindi dell'anarchia: questa non svanisce, ma anzi si accentua, ed è questo l'elemento fondamentale che caratterizza l'attuale fase, che determina la crisi.
Se anche questo si può in ultima analisi ricondurre all'elemento che avevamo visto già in Marx, cioè la caduta tendenziale del saggio di profitto, proprio perché l'esportazione di capitali nelle colonie è dovuta alla caduta del saggio di profitto nelle metropoli (ed è quindi uno spostamento di capitali da paesi ad alta a paesi a bassa composizione organica), in realtà Lenin individua l'anarchia della produzione capitalistica come momento generatore di crisi.
E sostanzialmente analoga è l'analisi di Bucharin.
Quali sono da una parte i caratteri di questa analisi e dall'altra le conseguenze politiche che Lenin ne trae: Lenin non vuole innovare rispetto all'analisi teorica di Marx, ma tende semplicemente a descrivere un fenomeno che si presenta in quella fase storica sotto un certo profilo; quindi se parliamo per esempio delle cause della crisi non possiamo dire che Lenin accentua teoricamente il fenomeno dell'anarchia rispetto ad altri elementi messi in luce da Marx o da altri ancora, ma che enuclea quel fenomeno preciso che nel suo periodo storico è fondamentale ed è quello che poi di fatto determina la guerra mondiale, l’anarchia. Senza però addentrarsi su alcuni elementi teorici fondamentali, perché in questo (ed è il secondo elemento da mettere in luce) si ricollega all'analisi di Marx, la dà per scontata e su di essa procede a costruire un'analisi attuale che gli serve a trarre alcune conseguenze politiche a livello dei rapporti fra le classi rispetto alle forze produttive.
Conseguenza dell'espansione imperialistica, dice Lenin, è il fatto che nella madre patria arriva molto più plusvalore di quanto non viene prodotto dagli operai interni. Questo plusvalore va da una parte ad arricchire i capitalisti, a trasformare in parte la classe dei capitalisti stessi, dall'altra va a vantaggio della classe operaia: non di tutta, bensì solamente del suo strato superiore, che viene chiamato aristocrazia operaia; sono i capi, gli operai più qualificati, tutta una serie di strati superiori del proletariato che per loro condizione, per loro salario e (dice ancora Lenin) per loro concezione del mondo sono in tutto simili al piccolo borghese. Questa aristocrazia operaia che insieme alla piccola borghesia è la base sociale fondamentale della stabilità del capitalismo, (ad esempio in paesi come l'Inghilterra), è anche la base politica del revisionismo dei partiti socialdemocratici. Quindi, dice Lenin, la nostra azione politica non può rivolgersi soltanto al proletariato nei suoi termini classici, deve capire che affinché la classe nel suo complesso diventi soggetto rivoluzionario, motore della rivoluzione, è necessario far saltare questi equivoci, questi elementi di collaborazione di classe, di compartecipazione della classe operaia alla spartizione dei profitti che vengono estorti al terzo mondo, e battere le tendenze opportunistiche che ne nascono; i dirigenti più tipici del movimento operaio revisionista vengono identificati come elementi di questi strati superiori, che hanno interessi materiali diretti nel processo capitalistico (o sono pagati per altro verso dalla borghesia). In ogni caso, al di là dell'implicazione fisica di questo processo, ciò che conta è la base materiale di massa del fenomeno; e quindi Lenin dice che la lotta all'imperialismo non è possibile, non ha senso se non è insieme lotta al revisionismo. Però non si ferma qui, ma indica anche alcune cconseguenze ulteriori dell'analisi dell'imperialismo.
Innanzitutto dice che l'imperialismo è la vigilia della rivoluzione socialista: cioè «sulle rovine della guerra sorge e si ingigantisce la crisi mondiale il cui sbocco inevitabile sarà la rivoluzione ».
La seconda cosa è che l'imperialismo coincide col parassitismo e l'imputridimento del capitalismo: parassitismo a livello di classe, nella classe borghese, nei rentier e a livello degli strati superiori della classe operaia; imputridimento nel senso che l'esistenza di prezzi di monopolio rappresenta un ostacolo fondamentale allo sviluppo del progresso tecnico.
È questa una tendenza che può avere delle fasi alterne, che però è la tendenza predominante, cioè il blocco del progresso tecnico da parte dell'imperialismo.
È conseguenza del carattere monopolistico dell'imperialismo stesso, anche se una delle controtendenze è il fatto che l'imperialismo coincide con la maggior socializzazione della produzione. Difatti il carattere monopolistico di concentrazione dei mezzi di produzione e di centralizzazione dei capitali sviluppa la socializzazione del lavoro ed insieme del progresso tecnico. Cioè tutte le invenzioni, tutti i miglioramenti nella produzione divengono non più fatto isolato da parte dell'artigiano singolo o del singolo imprenditore; sono programmate da parte del grande monopolio che può usarle poi nel bene e nel male: può fame un uso positivo, impiegarlo nel processo produttivo, oppure ad esempio può compiere una serie di ricerche e acquistare dei brevetti semplicemente per impedire che altri concorrenti li acquistino, bloccando cioè l'applicazione stessa del progresso tecnico.
Vi sono due elementi importanti per chiarire il rapporto fra le tendenze generali, in primo luogo quella che per tutto il periodo dell'Internazionale si chiama teoria del crollo: da una parte le analisi che tendono a sottolineare la inevitabilità del crollo del capitalismo per le sue contraddizioni interne, e dall'altra parte quelli che tendono a sottolineare invece che il capitalismo non ha, proprio per il suo carattere, possibilità
di crollare, che anzi si sviluppa costantemente e necessariamente; e da questo traggono le conseguenze politiche note.
In primo luogo la teoria del crollo appartiene a tutte le correnti di sinistra, da Lenin alla Luxemburg; nella Luxemburg abbiamo visto che la sua analisi del processo di sviluppo è in sé stessa anche una teoria del crollo inevitabile del capitalismo. Anche per Lenin abbiamo visto nella frase prima citata come le crisi, per il loro carattere, tendano in quella fase storica a portare il capitalismo verso il suo crollo inevitabile, ovviamente attraverso l'opera di un levatore: la classe operaia.
Dall'altra parte vi sono le posizioni di Bernstein e di altri revisionisti che sottolineano invece la capacità del capitalismo di svilupparsi in permanenza. L'elemento poi più chiaro e più netto sul piano teorico (al di là delle posizioni di Bernstein che sono pure posizioni politiche senzaun retroterra teorico) sono quelle di Kautsky, cioè la cosiddetta teoria del 'superimperialismo'. Kautsky spiega: l'imperialismo quale oggi lo vediamo non è la forma che assume il capitalismo in questa fase storica, non è quindi connesso necessariamente al capitalismo, ma è semplicemente una politica che i capitalisti fanno; e in quanto scelta politica può essere cambiata dalla classe operaia con la sua lotta. Quali sono le condizioni per modificare questa politica del capitalismo? È proprio nello sviluppo del capitalismo stesso, cioè dallo sviluppo monopolistico a livello internazionale, dalla formazione a livello di nazioni e anche superiore dei trust e dei cartelli, che possiamo ipotizzare che questo sviluppo tenderà a formare dei grandi cartelli a livello internazionale, che si spartiscono pacificamente il mondo e controllano tutto il processo produttivo a livello mondiale. E quindi elimineranno le guerre in primo luogo e tutte le conseguenze di miseria connesse alle crisi. Si tratta allora di far si che la classe operaia lotti perché si imponga questo tipo di diversa politica del capitalismo, perché si instauri il superimperialismo e perché questo abbia molto più accentuati i caratteri pacifici e di benessere per la classe operaia stessa.
È una posizione che ritroviamo anche recentemente alla base di tutta una serie di posizioni revisioniste. Uno degli elementi più chiari a questo proposito è quello di un altro revisionista tedesco e cioè Schmidt, il quale riprende il discorso sul benessere e sul carattere pacifico del capitalismo a partire dalla teoria del sottoconsumo. Cioè spiega: se causa della crisi è il sottoconsumo, allora basta semplicemente aumentare il consumo delle masse affinché non ci siano più crisi, e questo dal suo punto di vista vuol dire realizzazione degli interessi della classe operaia in quanto le offre maggior benessere (il che trova ulteriore rispondenza in un tipo di discorsi riformisti portati avanti anche oggi dei partiti revisionisti).
Qual'è l'atteggiamento politico generale che sta alla base delle teorie e dell'azione di Kautsky, Bernstein e via dicendo? Al di là del passaggio di Kautsky dal campo dell'ortodossia a quello del revisionismo, c'è una costante nella sua linea che è sommariamente questa: l'elemento fondamentale per la presa del potere è la maturità e la coscienza di tutta la classe operaia, sia che in un primo momento questo sia determinante per utilizzare gli elementi negativi delle crisi in senso rivoluzionario, sia che successivamente significhi una conquista pacifica del potere. (È questo un elemento in parte prefigurato in Engels nella 'Introduzione alle lotte di classe in Francia' quando estrapolando e in un certo senso generalizzando la condizione della classe operaia tedesca e del partito tedesco operaio nel 1895, spiega che ormai non è più necessario che la classe operaia si muova verso il socialismo con mezzi violenti, che basta già la sua forza, la sua maturità e la sua organizzazione per arrivare al potere per via graduale, pacifica e parlamentare).
Questo discorso è poi ripreso in altri termini, accentuando l'elemento diciamo 'idealistico', appunto da Kautsky e da Bernstein, i quali mettono in rilievo il fattore dell'educazione. Nella sostanza c'è il rifiuto della lotta di classe come contrapposizione alla borghesia, e una teoria e una prassi politica che tende a vedere come conciliabili in teoria e quindi in pratica gli interessi del capitale nella sua fase imperialistica con quelli della classe operaia. Di fatto tutta la battaglia che viene condotta ad esempio da Lenin, da Bucharin e dalla Luxemburg è una battaglia importante non solo per il livello teorico cui si pone, ma proprio perché si colloca nella prospettiva di distruggere fondamentalmente questo tipo di conseguenza politica, partendo però, e questo è un elemento di metodo che dobbiamo sottolineare, con lo smantellare le teorie che ne stanno alla base.
Abbiamo già visto la distinzione che fa Marx fra cause ultime e cause fenomeniche della crisi; è già un fattore importante, in quanto spesso anche nel dibattito fra le tendenze prima descritte si tende ad identificare le cause della crisi con quelle che Marx definiva le possibilità di crisi, cioè nel sottolineare ora l'uno ora l'altro di questi elementi; ricercando così le cause delle crisi nella separazione fra produzione e circolazione, fra produzione e consumo, o nell'anarchia o in altri momenti particolari.
Nella sostanza il discorso di Marx mi pare sia invece abbastanza diverso: cioè l'importante non è andare a vedere perché si sviluppano le crisi, in quanto le crisi sono il modo attraverso cui il capitale supera i suoi momenti di squilibrio e di ristagno e quindi sono il modo proprio di sviluppo del capitalismo stesso. Il problema è da una parte andare a cercare le cause ultime, ma dall'altra gli effetti politici e l'uso di classe di questi. È necessario ritornare a quel ventitreesimo capitolo del primo libro del 'Capitale', in cui Marx parla del meccanismo dell'accumulazione capitalistica, dove è presente in maniera sintetica un discorso preciso sulle crisi stesse, cioè la legge generale dell'accumulazione capitalistica; ovverossia, dice Marx, la formazione della sovrappopolazione relativa non è altro che il modo in cui si presenta lo sviluppo capitalistico, che può avere momenti di alti o di bassi, ma che è sempre sostanzialmente squilibrato al suo fondo, e che provoca immediatamente, proprio per l'estensione della sovrappopolazione relativa, l'esercito di riserva, (cioè la disoccupazione), che è un momento antagonistico al livello della classe operaia, cioè è il modo con cui la crisi concretamente si presenta evidenziando l'antagonismo fra classe operaia e capitale.
In questo senso anche l'analisi che fa Marx non è mai minuziosa, perché è sempre tesa a vedere gli aspetti politici della crisi. Per lui la crisi è necessaria e inevitabile e insieme necessario e inevitabile è il crollo del capitalismo; intendiamo in che senso: è cioè giusto, ma in un certo senso anche troppo facile, fare una polemica sul meccanicismo con cui vengono dedotte da alcune parti tutta una serie di conclusioni possibili, da quella per cui non bisogna far niente aspettando che il capitalismo crolli per poi prendere il potere che casca inevitabilmente nelle mani, a quella per cui non è necessaria nessuna azione rivoluzionaria e basta semplicemente smorzare gli aspetti più negativi che derivano da questo sviluppo del capitale. In realtà però cosa sta spesso dietro questo tipo di polemica contro il meccanicismo? 0 una concezione di tipo idealistico, cioè la convinzione che sia sufficiente per la rivoluzione lo sviluppo dell'elemento soggettivo, e che sia sufficiente quella che Kautsky chiamava la maturità e la coscienza di classe operaia, e che basti lo sviluppo e l'aumento in ampiezza e qualità di questa per portare avanti la rivoluzione; oppure anche un elemento di scelta preciso, che è un elemento di collaborazione di classe. Ma l'elemento che va sottolineato è che rifiutando il meccanicismo del discorso prima detto dobbiamo però restaurare in pieno e mettere in rilievo questo:
cioè le crisi sono inevitabili, ma di per sé non portano alla rivoluzione; però senza crisi non è possibile la rivoluzione.
Cioè è necessario un peggioramento delle condizioni materiali di esistenza del proletariato perché avvenga una crisi politica rivoluzionaria. Questo è un elemento che Marx mette sempre in rilievo ed è l'elemento forse più importante da sottolineare.
Perché perdendo questo elemento perdiamo grande parte della ricchezza di tutta l'analisi marxiana sulle classi e anche poi, in un certo senso, il significato dell'analisi teorica sul capitalismo.
Vediamo cosa significa concretamente a livello di classe questo tipo di affermazione; il peggioramento delle condizioni materiali significa intanto una definizione del soggetto rivoluzionario; in quanto se guardiamo il movimento delle classi in un momento di crisi queste si possono muovere in vari modi; Lenin per esempio descrive molto bene le reazioni della piccola borghesia dinanzi al processo di espropriazione da parte del grande capitale (e analoghi): esiste un movimento della piccola borghesia che è sostanzialmente reazionario, cioè tende a restaurare le condizioni di prima, della piccola concorrenza, della piccola produzione e via dicendo. Si manifesta quindi una reazione da parte di una serie di strati che però guardano indietro. Ed esistono poi una serie di altri strati (di recente proletarizzazione) che possono essere gli artigiani fino
al 1848, possono essere i contadini in un'altra fase, possono essere i tecnici o gli studenti in un'altra fase ancora.
È però necessario chiarire che esiste una distinzione netta tra le condizioni materiali e i bisogni del proletariato. Nel senso che le condizioni materiali sono in genere le condizioni della riproduzione della classe in quanto tale: sono cioè il livello di sussistenza storicamente dato. I bisogni sono qualcosa di più ampio: riconducono all'alienazione non come la definisce Marx nel Capitale, come espropriazione e come riduzione a lavoro salariato, ma all'alienazione come rottura della personalità umana, ad esempio come separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, come una serie di bisogni che però sono al di là della condizione materiale dell'esistenza stessa; che conducono cioè ad una alienazione ed a una rivolta che è ancora, (e si può riferire in parte al giovane Marx), di tipo ideale o illuministico e in ogni caso è molto diversa rispetto a quella che si basa sulle condizioni materiali vere e proprie. Allora è chiaro che se l'elemento necessario è il peggioramento della condizione materiale, questo non può voler dire che la diminuzione del salario e la perdita di conquiste sociali da parte di un certo strato.
Questa condizione porta ad avere una reazione in avanti, una reazione rivoluzionaria, per uno strato la cui proletarizzazione sia già consolidata come la classe operaia; per la piccola borghesia porta invece ad aumentare ed esaltare i momenti di rivolta, ma volti all'indietro, volti alla restaurazione delle condizioni precedenti, tende ad esaltare i momenti idealistici degli strati appena proletarizzati; ma l'unico strato che muove in avanti appunto è un proletariato già consolidato, già costituito in classe operaia stessa. In questo senso è fondamentale ricollegare il momento di crisi all'identificazione del soggetto rivoluzionario, che è uno dei momenti centrali poi di tutta l'analisi del Capitale.
È necessario vedere più concretamente questo punto: cioè, rispetto alla crisi qual'è il tipo di azione dell'avanguardia organizzata, la funzione del partito; ricollegato da una parte all'elemento teorico, dall'altra all'elemento dell'azione in concreto rispetto alla coscienza politica, alla costruzione della classe operaia come soggetto politico. Può essere utile tornare in primo luogo al modo in cui Lenin scrive l'Imperialismo, e paragonarlo brevemente alle condizioni attuali: sostanzialmente oggi l'elemento più difficile non è tanto riprendere l'opera di Lenin in quanto tale, cioè fare un'analisi dell'economia mondiale e dei rapporti sociali. L'elemento fondamentale, sul quale l.enin basava tutta la costruzione dell"Imperialismo', è la verifica di degli elementi di classe che stanno alla base della teoria delle crisi nel 'Capitale', dei presupposti teorici di fondo dell'analisi della società attuale. Seguendo il metodo con cui Marx costruisce la propria analisi, non in modo fenomenico ma individuando le leggi generali di sviluppo del capitale.
Dall'altra parte vedere proprio come questo elemento di acquisizione di una base teorica su cui costruire l'analisi attuale sia l'elemento fondamentale della trasformazione della classe operaia in soggetto politico e quindi in agente della rivoluzione.
È solo in questo senso che si può dire che Lenin con l'Imperialismo pone la base per l'azione del partito bolscevico all'interno della crisi mondiale e della guerra mondiale e della situazione rivoluzionaria del 1917, a questo livello cioè che si pongono i cardini per l'azione rivoluzionaria della classe operaia.
L'altro elemento è riferito alla coscienza politica che la classe ha dei suoi compiti storici. In questo senso la differenza fra il discorso che fa Marx e quello di Lenin è in una mediazione essenziale introdotta da Lenin, quella delle aristocrazie operaie; non è possibile la lotta contro l'imperialismo (cioè contro il capitalismo nella sua fase attuale) se non è unita alla lotta contro l'opportunismo, e quindi senza analizzare bene gli elementi di coscienza distorta che vengono introdotti a livello operaio da quel tipo di sviluppo. Anche se Marx conduce poi tutte le polemiche contro le tendenze ideologiche errate, in linea teorica Lenin porta molta più attenzione all'importanza di questa battaglia e alla formazione della coscienza politica della classe proprio per l'elemento nuovo che si è introdotto nella realtà della classe stessa. È necessario però chiarire meglio il rapporto che c'è tra il 'Che fare?' e 'L'Imperialismo'; nel senso cioè che l'analisi che Lenin svolge della coscienza tradeunionista della classe operaia e l'analisi dell" Imperialismo' non può essere compresa se non riusciamo a capire il processo della realtà storica effettiva, cioè se non comprendiamo come la crisi interviene nel processo di formazione della coscienza politica del proletariato.
Prendiamo ad esempio i processi rivoluzionari e di trasformazione che si hanno in Europa dal 1848 al 1917. Già nel 1848 Marx indica la possibilità concreta di crisi rivoluzionaria vedendo una crisi del capitale che è partita dalla Francia, si è ingigantita subendo le ripercussioni della crisi inglese e ha portato alla reazione della classe operaia e del proletariato. Successivamente Marx sviluppa una immediata autocritica: la crisi ha sì indicato la possibilità della rivoluzione, però il livello di sviluppo delle forze produttive e in particolare il livello di formazione e di consistenza sociale del proletariato era troppo inferiore rispetto alle necessità reali dell'azione politica, il proletariato di fatto era costituito in classe operaia solo potenzialmente.
Dopo questa crisi il capitale si organizza ad un livello molto superiore ed ha uno sviluppo economico sempre crescente. Nuova crisi nel 1870 e nuova azione da parte della classe operaia. È proprio dopo la crisi del '70-'73 che il capitale assume una struttura monopolistica: la classe operaia agisce, viene di nuovo sconfitta e il capitale assume la sua nuova forma monopolistica. Una nuova crisi nel 1900-1903, in cui abbiamo ancora una volta una serie di momenti di lotta di classe, in cui il capitale si trasforma definitivamente in imperialismo, in cui alla espansione monopolistica si aggiunge la dominazione coloniale ed il capitalismo diviene definitivamente imperialismo. Se noi ripercorriamo tutta la storia delle crisi che avvengono da lì in avanti vediamo che sono le crisi che determinano le possibilità concrete della rivoluzione a livello mondiale. D'altra parte ogni crisi, se la classe operaia non ne esce vincitrice, genera un nuovo livello di sviluppo del capitalismo e genera quindi le possibilità stesse del capitalismo di svilupparsi e di ingabbiare la classe operaia, presenta una trasformazione qualitativa nella sua natura in rapporto alla classe operaia stessa. Cioè mutano le forme, muta anche il rapporto in cui la classe operaia vede il capitale, mutano anche certe forme di coscienza.
Rispetto a queste trasformazioni del capitale le forme di coscienza di classe appaiono non acquisite una volta per tutte, ma come una coscienza di classe che deve continuamente rinnovarsi pena il perdersi completamente o il suo trasformarsi in elementi corporativi o reazionari. Il processo di formazione della coscienza di classe è un processo continuo, da recuperare e ricostruire momento per momento rispetto alle condizioni effettive del capitale e della società.
Con una condizione base, cioè un certo livello di sviluppo delle forze produttive: la rivoluzione del '48, ad esempio, era tale per la natura delle forze in gioco da non poter avere un carattere socialista proprio perché si trattava di frammenti sparsi di classe operaia ma ancora immersi in elementi in parte reazionari, vincolati dai limiti in parte ancora artigianali o semiartigianali della propria condizione.
Se da una parte la teoria della coscienza politica come è svolta non solo da Lenin, ma anche da Marx è l'elemento fondamentale da contrapporre all'opportunismo, alla collaborazione di classe, allo sviluppo del capitalismo di cui la classe operaia si fa leva, dall'altra il recupero della teoria della crisi è non solo una necessità generale e fondamentale da contrapporre all'idealismo, ma anche da contrapporre a tutta una serie di mistificazioni che vengono sviluppate in questo periodo. Nelle quali ciò che viene messo in risalto non è tanto la realtà del proletariato inteso come produttore di plusvalore, come classe che ha gli interessi e le condizioni che possono portare al socialismo, ma in cui è la condizione dei singoli individui o dei vari strati nel processo produttivo come condizione si può dire morale, più o meno alienata, più o meno suddivisa e frammentata che porta ad individuarli come elementi rivoluzionari. In questo senso quando noi vediamo le crisi concretamente non solo come elemento essenziale della rivoluzione, ma anche come elemento chiarificatore del comportamento delle varie classi, recuperiamo anche indicazioni decisive su quello che deve essere il nostro programma rispetto ai vari strati e ai vari momenti del proletariato.
relazione al seminario del circolo Lenin di Milano su ‘Teoria, prassi e realtà sociale nel movimento operaio, 1830-1929’ del Marzo 1970 - ed. Sapere
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