Crisi, oggi
Crisi, oggi
Il dibattito se il petrolio abbia raggiunto il suo picco é annoso e controverso, ma sembra che ormai ci sia un tacito accordo (anche se non pubblicizzato) sul fatto che sia già stato superato.
La relazione ha un tono allarmante: “la scarsità riguarderà ognuno” e “l’aumento del prezzo del petrolio pone un rischio sistemico, non solo per i sistemi di trasporto, ma anche per tutti gli altri sistemi”. E lancia un messaggio: “E’ fondamentale garantire l’accesso al petrolio”, perché in un arco di tempo abbastanza breve, tra oggi e il 2040, potremo vedere “un cambiamento nel panorama della sicurezza internazionale con nuovi rischi – come quello del trasporto di carburante – e nuovi attori in un possibile conflitto per la distribuzione di una risorsa sempre più scarsa “. Luís de Sousa sottolinea che dal 2005 la produzione mondiale di liquidi è oscillata tra gli 80 e gli 82 milioni di barili al giorno, evidentemente in accordo con tali modelli. Questo plateau “è stato sostenuto dalla crescita dei liquidi di gas naturale, in sostituzione del greggio [petrolio], in declino dal 2005″.
L’allarme è suonato: la scarsità di petrolio colpirà tutti.
Il picco del petrolio non è più discutibile. Le proiezioni riguardanti l’anno, il periodo di cinque anni, o il decennio in cui la produzione mondiale di petrolio comincerà a diminuire “sono ora una parte di storia”, afferma Luis de Sousa, membro di ASPO-Portogallo e collaboratore del blog “The Oil Drum “, parlando con Expresso. “Il periodo del picco è già stato vissuto. Predire non è più pertinente”, aggiunge
I PIIGS saranno i più colpiti
Uno dei gruppi in seno all’OCSE, che soffrirà di più della contrazione del petrolio disponibile è quello formato da quei paesi più dipendenti dal petrolio nel loro mix energetico, secondo Luís de Sousa. “Un dettaglio importante da notare – i paesi in maggiore difficoltà sarnno proprio quelli chiamati PIIGS. Ciascuno di questi paesi ha nel suo mix energetico totale una dipendenza dal petrolio di oltre il 45%. Tra essi vi è la Grecia con il 58%, il Portogallo e l’Irlanda con il 55%,.la Spagna con il 48% e l’Italia con il 46%. Ciò è in contrasto con la media dell’Unione europea del 37%. Se si aggiungono i quattro paesi con dipendenza dal petrolio sopra alla media europea, ma inferiore al 45%, si ottiene una mappa completa della zona dove si avrà il maggiore impatto. Oltre ai PIIGS, questa include Austria (44%), Olanda (42%), Belgio (41%) e Danimarca (39%) “.
Recentemente, il picco è tornato alla ribalta a causa di un rapporto segreto del gruppo Future Studies del Centro tedesco per la trasformazione delle Forze Armate, un think tank militare che lavora per il ministero della Difesa di Berlino. Lo studio è stato pubblicato da “Der Spiegel”, e preoccupa non poco coloro che sono meno abituati a questo tema e alle sue implicazioni geopolitiche.
Il rapporto tedesco conclude che “le esportazioni di petrolio disponibile attraverso il mercato della domanda e dell’offerta si ridurranno” e che la necessità di una diplomazia del petrolio aumenterà vertiginosamente a causa della geopoliticizzazione del petrolio . La crescente scarsità di cui parlano i tedeschi è associata ad “un livello quasi costante della produzione di petrolio, che è fissa all’interno di una banda che è iniziata nel 2004″, sottolinea Luís de Sousa.
Questa “banda” di variazione viene chiamata da molti specialisti, con un certo umorismo, “un altopiano ondulato” (undulating plateau). Il significato è che in questo altopiano, le variazioni di produzione oscillano, come un’onda, di anno in anno, indipendentemente dalle variazioni di prezzo.
La crisi probabilmente vedrà prolungare questo periodo ondeggiante, dando luogo ad un appiattimento dove altrimenti ci sarebbe stato un picco significativo”.
Più importante del picco stesso o del plateau di produzione è la quantità di petrolio disponibile sul mercato internazionale, o in altre parole, ciò che è disponibile per l’esportazione al di là di ciò che viene consumato da coloro che producono il petrolio. “Il massimo delle esportazioni è stato raggiunto nel 2005, ad un livello pari a 44 milioni di barili al giorno (mbg).
Da allora, l’esportazione è entrata in un declino lento, ma irreversibile,” dice lo specialista ASPO. Attualmente le esportazioni ammontano a 42 mbg, e nel 2020 le esportazioni saranno probabilmente sotto i 35 mbg. Luís de Sousa aggiunge anche che nella contesa per il petrolio disponibile nei mercati internazionali, un cambiamento è in atto. “Vi è un trasferimento di consumo dai paesi che costituiscono l’OCSE (paesi industrializzati) a quelli emergenti .- Se nel 1990, la metà del petrolio prodotto veniva consumato dall’OCSE, oggi questa frazione è scesa a un terzo”. Il mercato mondiale è stato capovolto.
Questi cambiamenti strutturali a lungo termine, derivanti dalla scarsità di questo bene e dai crescenti rischi geopolitici (inclusi quelli di navigazione negli stretti strategici), sono stati ulteriormente modificati, negli ultimi anni, da quella che fu soprannominata la “finanziarizzazione” del mercato dei futures sul greggio. Ciò è accaduto quando gli speculatori finanziari soprannominati “Wall Street refiners” sono entrati nel mercato, comprando e vendendo “barili di carta”, causando un disturbo supplementare nel settore del mercato, con a volte oscillazioni “selvagge”.
Il settore più debole per i cinque paesi più vulnerabili della zona euro (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) è il settore dei trasporti, in particolare quelli su strada. “Questa dipendenza può derivare dalla posizione geografica, dall’inadeguata pianificazione urbana e nazionale o da entrambe le cose”, spiega Luis de Sousa. Egli raccomanda di aumentare le modalità marittima e ferroviaria di trasporto; non è sufficiente modernizzare le infrastrutture elettriche o favorire altre fonti di energia.
Che dire, ci aspettano periodi molto impegnativi e “noi della transizione” dovremo imparare ad essere anche dei bravi psicologi: il panico di molti di coloro che ci sono vicini, e l’elaborazione di una sorta di lutto per un modello di civiltà che si avvia a grandi cambiamenti, sono le prime cose che ci troveremo a dover gestire.
_________________________________________________________
Il picco del petrolio è arrivato e non ce ne siamo accorti?
di Ugo Bardi | 19 novembre 2012 Il fatto Quotidiano
Ha fatto molto rumore la pubblicazione del rapporto del 2012 dell’ International Energy Agency (IEA) sul petrolio e il gas. Sembra che qualcuno si sia alquanto ‘gasato’ su queste cose: si parla di una rivoluzione produttiva, degli Stati Uniti come la ‘nuova Arabia Saudita’ e che ritornano ad essere auto-sufficienti e addirittura esportatori di petrolio dopo oltre mezzo secolo di declino produttivo. Insomma, prospettive non solo rosee, ma addirittura entusiasmanti.
Ora, se ci pensate sopra un momento, è curioso che ci stiano raccontando questa storia di abbondanza mentre, allo stesso tempo, il petrolio ce lo stanno facendo pagare a prezzi da collezionisti; inchiodati vicino ai 100 dollari al barile ormai da almeno tre anni e con la benzina sempre vicina ai 2 Euro al litro. Non c’è una contraddizione, qui? In effetti, sembra proprio che ci sia qualcosa che non va con queste rosee predizioni.
Se guardiamo i dati, in effetti, ci accorgiamo che c’è ben poco da gioire. La produzione mondiale di petrolio greggio è in declino dal 2008; l’anno che possiamo prendere come quello del ‘picco del petrolio‘. L’industria petrolifera riesce per il momento a compensare con altre sorgenti, quelle cosiddette ‘non convenzionali’: sabbie, scisti e biocombustibili, come pure il cosiddetto ‘shale gas’. Ma la produzione mondiale non cresce in modo significativo da almeno cinque anni e i costi di estrazione continuano ad aumentare. Fra i paesi produttori, ce n’è soltanto uno che mostra una tendenza opposta: gli Stati Uniti, dove negli ultimi 3-4 anni si è vista ripartire la crescita della produzione sia di petrolio che di gas, invertendo il declino che durava ormai dagli anni 1970. E’ su questo punto che si basa molto dell’ottimismo attuale.
Ma che cosa è cambiato negli Stati Uniti? Ben poco in termini di produzione di greggio, che continua a calare. L’aumento è stato tutto generato da sorgenti ‘non convenzionali’ estratte con nuove tecnologie. Ma sono veramente nuove? Non proprio: la fratturazione idraulica e le trivellazioni orizzontali per tirar fuori il gas e il petrolio dagli scisti si facevano già negli anni 1960. Per quanto riguarda l’etanolo dai cereali, poi, lo facevano già gli Egiziani al tempo dei faraoni! Certo, queste tecnologie sono state migliorate oggi, ma i costi di produzione rimangono molto alti e, soprattutto, le rese sono terribilmente basse. Estrarre da queste sorgenti costa sempre di più e rende sempre di meno.
Quindi ci possiamo fare un’idea di cosa sta succedendo. L’industria petrolifera ha bisogno di enormi investimenti per continuare a produrre e deve continuare a produrre per ottenere enormi investimenti: chi investirebbe in un’industria in declino? Per cui è necessario convincere gli investitori che le risorse sono abbondanti. E’ normale: lo sappiamo tutti che la pubblicità è l’anima del commercio. Il problema è che il mercato del petrolio e del gas somiglia sempre di più a una bolla finanziaria come quella dell’edilizia, Si sa che, purtroppo, le bolle tendono a esplodere e quando qualcosa esplode c’è sempre qualcuno che si fa male. Speriamo bene.
Ah…. e non vi ho parlato dell’Italia. Da noi il picco del petrolio è stato un bel po’ di anni fa: è da circa il 1998 che i consumi sono in declino, mentre il consumo di energia totale è in calo dal 2005 – e va sempre peggio! Non ve ne eravate accorti?
________________________________________________________
Dieci motivi per dire no alle estrazioni di petrolio in Italia
di Maria Rita D'Orsogna | 30 novembre 2012\ Il fatto quotidiano
Sono cinque anni che gestisco un blog contro la petrolizzazione dell’Italia, e questo è il mio primo post su ilfattoquotidiano.it. Il grande pubblico probabilmente non sa che ci sono concessioni petrolifere – metanifere – stoccanti sparse su tutto il territorio nazionale: dalla laguna veneta ai vigneti d’Abruzzo, dai frutteti di Oristano alle colline toscane, dalle isole Tremiti alle risaie di Vercelli, dal cuore dell’Emilia terremotata al mar Ionio.
I “Professori” ci dicono che trivellare l’Italia serve per soddisfare il nostro fabbisogno nazionale, per lo sviluppo economico, per l’occupazione, e che tutto sarà fatto in modo “sostenibile”.
Questo è quello che dicono loro.
Invece, io l’ho girata tutta l’Italia petrolizzanda e petrolizzata ed è lampante, ai miei occhi almeno, che l’idea di “aggiustare” la nazione facendo buchi a destra e a manca non è la soluzione.
I motivi? Eccone dieci:
1.Paesaggio e turismo
L’Italia è un paese densamente abitato, con un paesaggio invidiabile, variegato, fatto di colline, di mare, di boschi, di posti unici. Dove le mettiamo queste trivelle? Ovunque ti giri c’è comunità, c’è vita, c’è potenziale di bellezza, non deserto. Come si può pensare di trivellare a pochi chilometri da Venezia o da Pantelleria? Petrolizzare un territorio significa imbruttirlo, avvelenarlo, annientando quasi tutto quello che già sul territorio esiste o potrebbe esistere. E significa farlo sul lungo termine. Chi comprerà una casa con vista pozzo? Quale turista vorrà venire in Italia a vedere il mare o le colline bucherellate dalle trivelle o a respirare aria di raffineria? Fra l’altro la tutela del paesaggio è uno dei punti fondamentali della nostra Costituzione.
2.Petrolio scadente
Il petrolio presente in Italia – in generale – è scadente, in qualità ed in quantità, ed è difficile da estrarre perché posto in profondità. E’ saturo di impurità sulfuree che vanno eliminate il più vicino possibile ai punti estrattivi. Non abbiamo nel sottosuolo il petrolio dei film texani, quanto invece una sorta di melma, maleodorante, densa e corrosiva che necessita di vari trattamenti prima di arrivare ad un prodotto finale.
3. Infrastrutture invasive e rifiuti
Questo fa sì che ci sia bisogno di infrastrutture ad hoc: pozzi, centrali di desolforazione, oleodotti, strade, porti petroliferi, industrializzazione di aree che sono al momento quasi tutte agricole, boschive, turistiche. Non dimentichiamo gli abbondanti materiali di scarto prodotti dalle trivellazioni – tossici, difficili e costosi da smaltire – con tutti i business più o meno legali che ci girano attorno. E non dimentichiamo il mare, dove la ricerca di petrolio può causare spiaggiamenti di cetacei, e dove è prassi ordinaria in tutto il mondo lo scarico in acqua di rifiuti petroliferi secondo il principio “occhio non vede, cuore non duole”.
4. Inquinamento aria
Sia dai pozzi che dalle centrali di desolforazione vengono emesse sostanze nocive e dannose all’agricoltura, alle persone, agli animali. Fra questi, l’idrogeno solforato (H2S), nitrati (NOx), i composti organici volatili (VOC), gli idrocarburi policiclici aromatici (PAH), nanopolveri pericolose. Alcune di queste sostanze sono provatamente cancerogene e causano danni al DNA ed ai feti. Possono anche causare piogge acide, compromettere la qualità del raccolto e la salute del bestiame. Chi eseguirà i monitoraggi, chi controllerà lo stato di salute delle persone? E’ giusto far correre questi rischi ai residenti, dato che gli effetti nefasti del petrolio sulla salute umana sono noti, e da tanto tempo, nella letteratura medico-scientifica?
5. Inquinamento acqua
Nonostante le cementificazioni dei pozzi e l’utilizzo di materiale isolante negli oleodotti, tali strutture con il passare degli anni presentano cedimenti strutturali, anche lievi, dovuti al logorio, alle pressioni, allo stress meccanico. L’elevata estensione degli oleodotti, e la profondità dei pozzi, rende difficile individuare queste fessure, che possono restare aperte a lungo, inquinando l’acqua del sottosuolo e danneggiando gli ecosistemi con elevati costi di ripristino.
6. Idrogeologia e sismicità
L’Italia è a rischio sismico, con già tanti problemi di stabilità idrogeologica, di subsidenza, a cui si aggiungono in molti casi l’abusivismo e la malaedilizia. In alcuni rari casi (ma ne basta uno solo!) le ispezioni sismiche, le trivellazioni, la re-iniezione sotterranea di materiale di scarto ad alta pressione possono alterare gli equilibri sotterranei, checché ne dica qualcuno dei “tuttapostisti” accademici italiani. Come non conosciamo perfettamente la distribuzione delle falde acquifere, così non conosciamo perfettamente neanche quella delle faglie sismiche. Stuzzicare i delicati equilibri geologici può innescare terremoti, anche di magnitudine elevata. E’ già successo in Russia, in California, in Colorado.
7. Incidenti
Anche prendendo tutte le precauzioni possibili, i pozzi possono sempre avere malfunzionamenti. In Italia abbiamo avuto già esempi di scoppi o incidenti gravi con emissioni incontrollate di idrocarburi per vari giorni senza che nessuno sapesse cosa fare: nelle risaie vicino a Trecate, nei mari attorno alla piattaforma Paguro, nei campi di Policoro. Per risanare Trecate non è bastato un decennio. Non per niente in California c’è una fascia protettiva anti-trivelle di 160 chilometri da riva, e non per niente è dal 1969 che non si buca più il mare.
8. Speculatori
Molte delle ditte che intendono trivellare l’Italia sono minori, straniere, con piccoli capitali sociali. Spesso annunciano di volere fare il salto di qualità con il petrolio d’Italia perché – e lo dicono candidamente ai loro investitori – da noi le leggi sono meno severe, è facile avere i permessi, le spese di ingresso sul territorio sono basse. Saranno, queste micro ditte irlandesi, australiane, statunitensi e canadesi, capaci di gestire i controlli ambientali a regola d’arte? Ed in caso di incidenti, con i loro esigui capitali sociali, avranno le risorse per affrontare operazioni di pronto intervento, risanamento ambientale e risarcimento danni?
9. Minimi benefici
Il petrolio d’Italia non farà arricchire gli Italiani, non porterà lavoro, e tanto meno risolverà i problemi del bilancio energetico nazionale. Le royalties d’Italia sono basse, e la maggior parte di questo petrolio verrà estratto da ditte straniere, libere di vendere il greggio su mercati internazionali. E’ pura speculazione, niente più.
10. Basilicata
Ed anche se tutto fosse fatto a opera d’arte, il vero conto va fatto su tutto quello che il petrolio distruggerà, sui rischi che ci farà correre, a fronte dei suoi presunti vantaggi. In Italia abbiamo già una regione che è stata immolata al petrolio e di cui il resto d’Italia sa poco. E’ la Basilicata, che fornisce a questa nazione circa il 7% del suo fabbisogno nazionale. Tutti i problemi elencati sopra sono realtà in Basilicata: sorgenti e laghi con acqua destinate al consumo umano inquinate da idrocarburi, declino dell’agricoltura, del turismo, petrolio finanche nel miele, aumento di malattie, mancanza di lavoro, smaltimento illegale di materiali tossici, anche nei campi agricoli. E cosa ha guadagnato la Basilicata da tutto ciò? Un dato per tutti: secondo l’Istat, la Basilicata è la regione più povera d’Italia. Era la più povera prima che arrivassero i petrolieri con le loro vuote promesse di ricchezza, lo è ancora oggi.
Ma… cari professori, invece che fare buchi non sarebbe meglio coprire tutti i tetti d’Italia con un pannello fotovoltaico?
sabato 3 novembre 2012
Picco del petrolio