Complotti?
Complotti?
Italia, Stragi
La prima relazione della Commissione stragi (Pellegrino) delinea un quadro chiaro e drammatico della situazione dell’Italia dal primo dopoguerra a tutti gli anni ’80:
“Emerge negli stessi il quadro di un Paese, l'Italia, che ha vissuto nel periodo storico considerato, e nel contesto di un mondo diviso in due grandi blocchi, una difficile e a volte tragica situazione di frontiera. E dove il termine frontiera attiene non solo alla delicata posizione strategica dell'Italia nel bacino del Mediterraneo, ma anche (e forse in maniera più intensa) a quella linea di frattura fra ideologie concorrenti che ha segnato la vita sociale della nazione, nonché ai riflessi che indubbiamente ha avuto nel determinarsi di un quadro politico di indubbia singolarità se raffrontato con le altre democrazie del blocco occidentale. Emerge, in altri termini, la fragilità di una democrazia non solo giovane, ma per oltre mezzo secolo destinata a restare incompiuta nella negata possibilità di una reale alternanza delle forze politiche al Governo. Da ciò una intrinseca condizione di debolezza dei controlli democratici e lo svilupparsi, al di sotto della storia ufficiale del Paese, di un corso occulto che ha costantemente lambito, o direttamente riguardato, anche apparati istituzionali dello Stato. Emergono in queste letture della storia nazionale costanti interconnessioni tra poteri palesi e poteri occulti, veri fiumi carsici che fluivano al di sotto dell'apparente (e cioè democraticamente conoscibile) svolgersi degli eventi e che hanno avuto origine sin dalla fase fondativa della Repubblica in forme probabilmente separate. Degli stessi peraltro, soprattutto in sede giudiziaria, si sono individuati possibili luoghi di intreccio, veri e propri crocevia eversivi la cui decifrazione è apparsa necessaria ai fini della compiuta comprensione di molti tragici eventi. Ma anche a voler prescindere dalla considerazione di tali snodi, resta innegabile che le emersioni in superficie di tali flussi sotterranei, pur nell'episodicità dei singoli accadimenti, denotano una ricorrenza di caratteri comuni e spesso il coinvolgimento dei medesimi personaggi, così da rendere ragionevole l'ipotesi di un loro collegamento. Da un lato, quindi, la natura di molti tragici eventi non appare comprensibile al di fuori di una ricostruzione degli sviluppi della storia sotterranea che li collega; dall'altro non è revocabile in dubbio che il corso di questa abbia influenzato (e a sua volta sia stata influenzata da) gli sviluppi della storia politica del Paese”
E`in questo quadro che s’innestano le stragi, la ‘strategia della tensione’, volta ad impedire al PCI di arrivare al governo.
La presenza costante di una rete eversiva, pronta ad entrare in azione in momenti particolari ma funzionante come elemento continuo di condizionamento (e parzialmente gestione) della vita politica e sociale va dagli anni della guerra fino ai giorni nostri. Al suo interno loggie massoniche (la famosa P2 ed altre), banche, industriali..oltre a militari di ogni tipo. L’intreccio coi diplomatici e i servizi segreti degli altri paesi della Nato (dalla famigerata Claire Boote Luce, ambasciatore americano e molgie del magnate editore e golpista americano Luce all’ambasciatore sempre USA ed ex CIA )
Per motivi politici ovvi la commissione stragi non e' entrata nei particolari del quadro dell'Italia come 'terra di battaglia'. Aggiungeremo quindi noi alcuni elementi di pubblico dominio (ma poco citati).
Le fonti sono McCoy, Peter Weiler,'The United States, International Labor and the Cold War: the Breakup of the World Federation of Trade Unions', 'Diplomatic History,5,1/81', (anche online nella Wiley online library', Trevor Barnes, 'The Secret Cold War: the CIA and American Foreign Policy in Europe, 1946-1956', part I, 'Historical Journal, 24,2/81', Filippelli, 'American Labor and Postwar Italy 1943-1953', Stanford University Press '89, Kolko and Kolko, 'the Limits of Power', Harper&Row '72, Alessandro De Felice
La socialdemocrazia e la scelta occidentale dell'Italia (1947-1949). Saragat, il PSLI e la politica internazionale da Palazzo Barberini al Patto Atlantico, Boemi-Prampolini, Catania '98, Franco Ferraresi, 'Minacce alla democrazia', Feltrinelli '95, A. Carew, 'Labour under the Marshall Plan: the politics of productivity and the marketing of management science',1987 - books.google.com
Come in Francia la CIA con la collaborazione dell'AFL-CIO rompe l'unita' sindacale mediante la creazione di Force Ouvriere e l'unita' socialisti-comunisti utilizzando il sindaco socialista di Marsiglia Gaston Defferre (legato alla rete di narcotraffico dei corsi diretti dai fratelli Guerini) e il dirigente nazionale socialista Leon Jouhaux (1 milione di dollari l'anno, 2 nei periodi cruciali-'47)
cosi' succede anche in Italia, con la scissione socialista di Saragat ('Palazzo Barberini') e la rottura della CGIL con la creazione di CISL e UIL, sempre con gli stessi finanziatori e sempre sotto l'egida del Piano Marshall (che, non dimentichiamolo, non fu concepito tanto come strumento di ripresa economica ma come intervento massiccio sul lavoro, la sua organizzazione..e la sua rappresentanza, per 'togliere la terra sotto i piedi' ai partiti comunisti).
Ma oltre ai rapporti politici vi sono strutture militari 'dormienti', come la Gladio, rapporti solidi con parti importanti dei Servizi Segreti e dei vertici militari (v. il 'piano Solo'), rapporti piu' informali ma influenti con la Massoneria (soprattutto le loggie di osservanza anglo-americana), e rapporti sotterranei ma solidi con parti dei gruppi fascisti.
Sono tutti elementi che nella fase della 'strategia della tensione' entrano in azione, vengono coinvolti in processi, inchieste, Commissioni parlamentari ulteriori..e cadono poi nell'oblio o vengono confinate in un limbo indefinito e, come tutti i limbi, incolpevole.
Basti pensare ad un episodio come il 'golpe Borghese', relegato dal Tribunale al ruolo di operetta nostalgica di un reduce della X Mas, ma che invece fu un vero e massiccio inizio di colpo di stato, con la partecipazione dei massimi livelli militari e dei servizi, bloccato solo all'ultimo momento dal ripensamento americano.
Vi sono poi i legami 'storici' creati con la mafia ai tempi dello sbarco in Sicilia, con la presenza ufficiale di questa nel governo provvisorio militare (AMGOT), i sindaci suoi, l'appoggio congiunto al movimento separatista come riserva contro un'eventuale avanzata comunista sul continente (riserva poi ritirata)...
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di Antonella Beccaria | Reggio Emilia | 29 agosto 2012 -Il Fatto Quotidiano
Il libro Stragi e mandanti (Aliberti Editore), curato da Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione fra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna, e dal giornalista Roberto Scardova (arrivato sul luogo dell’esplosione pochi minuti dopo, quel giorno di 32 anni fa, e ancora commosso al ricordo di ciò che vide e raccontò per conto della Rai) va oltre i fatti del 2 agosto 1980. Non può che essere così, tenuto conto dell’ampio panorama storico che prende in considerazione, da Portella della Ginestra (1947) alle stragi mafiosi del biennio 1992-1993. E padre diretto del libro è un dossier che l’Associazione vittime ha depositato in procura la primavera scorsa, 604 pagine in chi si chiede di aprire un’inchiesta per andare alla ricerca dei mandanti dell’attentato che nel capoluogo emiliano fece 85 morti e 200 feriti.
“Questo libro”, scrivono gli autori in apertura del volume che verrà presentato alla Festa dell’Unità di Reggio Emilia venerdì 31 agosto alle ore 18, “nasce dalla volontà di contribuire, ancora una volta, alla ricerca e all’individuazione di quanti vollero e progettarono la strage di Bologna. Le sentenze hanno individuato gli autori materiali, ma molti dei loro complici hanno potuto passare impunemente tra le maglie delle inchieste e di tanti processi. La ricerca dei mandanti resta un obiettivo primario: un debito nei confronti delle vittime che aspettano giustizia, e un dovere nei confronti di quanti ricercano la verità su cinquanta anni di strategia della tensione che hanno impedito il normale sviluppo democratico del Paese”.
Ecco allora che il quadro che ne deriva è quello di una formula che ha agito da piazza Fontana in avanti, basato per Bologna sui quadri già accertati in sede processuale – la manovalanza neofascista, la copertura dei servizi segreti e i depistaggi a cui ha contribuito anche la loggia P2 – e che indica ulteriori fasce le cui responsabilità, secondo i familiari delle vittime, andrebbero indagate. Vengono chiamate “le possibili strade per identificare” chi ha impartito l’ordine e ne deriva uno spaccato di storia d’Italia che travalica i confini nazionali laddove suggerisce il coinvolgimento di vertici militari e politici statunitensi e attinge a fonti come i documenti desecretati dall’intelligence britannica.
“Quello che offriamo non è il racconto di una storia né la proposizione di certezze”, tengono a precisare Bolognesi e Scardova, “ma una raccolta ragionata di dati conoscitivi potenzialmente utili alla ricostruzione della strage del 2 agosto 1980. L’arroganza del potere lascia tracce, come le lumache, basta seguirle per arrivare all’origine di quegli eventi devastanti”. Le tracce sono documenti giudiziari già acquisiti in tanti processi (“non abbiamo trattato documenti coperti da qualche tipo di segreto”, dicono ancora) e si riparte dunque dalle notizie “preventive” della strage. Notizie che non sarebbe circolate solo nel luglio di quell’anno, quando l’ordinovista Presilio Vettore parlò con il giudice Giovanni Tamburino riferendogli di aver appreso in carcere della preparazione di un attentato.
C’è il documento “sulla progressione rivoluzionaria” del 1979 scritto da una decina di detenuti nel carcere di Nuoro in cui si preannunciava il passaggio “alla fase dello stragismo”. E poi si fa riferimento a un di poco successivo testo in cui si profila come prossima “un’esplosione dalla quale non escano che fantasmi” perché “bisogna che le stazioni non siano più sicure”. Fin qui il riferimento è al mondo del neofascismo che avrebbe dovuto raccordare “i vecchi ordinovisti veneti e il gruppo dei romani”. Ma poi si torna a scalare il mondo degli apparati pubblici.
Tra questi il colonnello Amos Spiazzi, anima dei Nuclei di difesa dello Stato, una rete operativa di natura militare che avrebbe operato in parallelo e talvolta in comunione con Gladio e che non si sciolse nel 1973, come sostenuto in precedenza, ma che nella seconda metà degli anni Settanta avrebbe trovato nuova linfa per ripartire. E poi, sull’agenda del colonnello, già indagato e prosciolto per eventi golpistici, ci sono dei passaggi ritenuti interessanti dagli autori. Il 2 agosto 1980 il colonnello aveva annotato “andato ore 10.30” e “ritirato pacco”. La particolarità, oltre al riferimento orario (la bomba esplose a Bologna quel giorno alle 10.25), è anche un’altra. Un mese esatto prima, il 2 luglio, l’ufficiale aveva scritto un testo quasi identifico: “Andato ore 10.30” e “ritirare pacco”. “Non sufficiente a indagarlo di nulla”, affermano gli autori del libro, “ma abbastanza, perché si facciano ulteriori accertamenti e perché si chieda spiegazione al militare di quegli appunti scarabocchiati”.
Inoltre, altro elemento che Bolognesi e Scardova mettono in risalto dedicandogli in capitolo ad hoc è la rilettura di due depistaggi, identici, attuati prima per la strage di Ustica del 27 giugno 1980 e poi, poco più di un mese dopo, il giorno della bomba alla stazione. Il “doppio depistaggio” si incentra sulla figura del neofascista Marco Affatigato, indicato da una telefonata (si scoprirà fatta da un informatore dei servizi segreti) come uno dei passeggeri del Dc9 partito da Bologna e morto mentre trasportava una bomba con altre 80 persone nell’abbattimento dell’aereo.
Lo avrebbero riconosciuto dall’orologio, un Baume & Mercier, ma era falso e l’uomo era tranquillo a casa sua, a Nizza. Altrettanto falsa era la soffiata che lo indicava come colui che aveva collocato l’ordigno il 2 agosto 1980. Per gli autori il depistaggio era stato preparato con settimane di anticipo rispetto al primo evento e quando l’aereo dell’Itavia fu tirato giù, ci fu chi lo fece scattare per errore o per eccesso di zelo. Motivo: si sapeva con ampio anticipo quello che si andava preparando, uno scenario che il giudice romano Mario Amato, parlando al Cms nella primavera del 1980 prima di essere assassinato dai Nar il 23 giugno di quell’anno, aveva definito “la soglia di una guerra civile”.
Cosa manca per arrivare ai mandanti, dunque? “Manca poco”, risponde Roberto Scardova. “Sappiamo oggi già molto e cioè sappiamo che c’è stata un’organizzazione, Ordine Nuovo, che ha lavorato a fianco e dentro ai servizi segreti americani e italiani e a strutture militari dello Stato. A non esserci ancora sono ‘piccole’ cose, come alti vertici dello Stato, tra cui Giulio Andreotti (peccato che Francesco Cossiga invece sia morto), che raccontino la vera verità. È importante perché si tratta di una storia che parte da lontano e arriva fino a stamattina”.
“Questo libro”, aggiunge Bolognesi, “vuol trasmettere anche un altro messaggio: all’esatta ricostruzione dei fatti si può arrivare, basta volerlo.
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da Gianni Barbacetto/Società civile
Edgardo Sogno
Doppio Sogno o doppio Stato?
5. Il biennio nero
In quegli anni cruciali, tra il 1970 e il ’74, in Italia dunque si muove un grande, composito, non privo di conflitti «partito del golpe». Il principe Junio Valerio Borghese prepara un colpo di Stato, sostenuto dai movimenti neonazisti italiani, Ordine Nuovo di Pino Rauti e Avanguardia Nazionale di Stefano Delle Chiaie, appositamente riuniti sotto la nuova sigla Fronte Nazionale. Per una cruciale «ora x» del 1973 erano pronti a scattare anche i congiurati, militari e civili, della Rosa dei Venti. E per l’agosto 1974 era programmato il «golpe bianco» di Sogno. Le stragi, in questo contesto, sono progettate come momenti di disordine, da addebitare ai «rossi», affinché il Paese reagisca chiedendo che venga ristabilito l’ordine. L’«ora x» non scatta, ma nel «biennio nero» ’73-’74 scattano molte azioni progettate e realizzate come preparatorie al golpe: 7 aprile 1973, attentato al treno Torino-Genova (fallito per l’imperizia dell’attentatore, l’ordinovista Nico Azzi, che si ferisce con l’innesco della sua bomba); 12 aprile 1973, manifestazione fascista a Milano con uccisione di un agente di polizia, colpito da una bomba a mano; 17 maggio 1973, strage alla questura di Milano, per mano del falso anarchico Gianfranco Bertoli (quattro morti, 46 feriti); 28 maggio 1974, strage di piazza della Loggia a Brescia (otto morti, 94 feriti); 4 agosto 1974, strage dell’Italicus (12 morti, 48 feriti). Brescia e Italicus fanno parte di un programma di quattro stragi, due delle quali, a Silvi Marina vicino a Pescara e a Vaiano in Toscana, sono fallite. Ma in tutta Italia sono centinaia gli attentati minori che vanno a segno. Intanto in Valtellina erano pronte le truppe armate di un altro partigiano bianco, Carlo Fumagalli. Pronta a Milano la «Maggioranza silenziosa» di Adamo Degli Occhi e Massimo De Carolis, il cui compito era dare sostegno di piazza all’attesa svolta istituzionale. Pronto anche il gruppo armato di Giancarlo Esposti, che stava forse preparando un clamoroso attentato a Roma quando, abbandonato da chi gli aveva promesso sostegno e copertura, viene abbattuto in un conflitto a fuoco al Pian del Rascino, il 30 maggio 1974. A tutta questa fittissima attività eversiva non erano estranei gli apparati istituzionali italiani e i centri informativi della Nato e degli Stati Uniti, che sapevano, tolleravano, vigilavano, ora spingevano, ora frenavano. Senza quella guida e quella tolleranza, il grande circo dell’eversione non serebbe durato più di qualche mese. Nel 1974, però, la svolta. Cambia il quadro internazionale, finisce (sotto i colpi dello scandalo Watergate) l’amministrazione Nixon negli Stati Uniti, cade il regime di Caetano in Portogallo e quello dei colonnelli in Grecia. In Italia, dentro gli apparati e nella politica, arriva alla resa dei conti lo scontro feroce tra un’ala più tradizionalmente filogolpista (a cui apparteneva, tra gli altri, il capo del Sid Vito Miceli) e un’ala più disposta a un cambiamento dei metodi della «guerra non ortodossa» (incarnata dal capo dell’Ufficio D del Sid Gianadelio Maletti e dal suo punto di riferimento politico, Giulio Andreotti). Durante questa durissima guerra intestina, nel 1974, anno cruciale, si aprono alcuni spiragli sulla verità: i magistrati di Milano Gerardo D’Ambrosio ed Emilio Alessandrini danno nuovo impulso alle indagini sulla strage di piazza Fontana, coinvolgendo direttamente anche l’informatore del Sid Guido Giannettini; un giovane giudice di Padova, Giovanni Tamburino, scopre il piano eversivo della Rosa dei Venti e fa arrestare addirittura il capo del Sid, Miceli; a Torino il giudice istruttore Luciano Violante apre un’inchiesta sul «golpe bianco» che farà finire in carcere Edgardo Sogno. Dura pochi mesi. Poi gli apparati e la politica tornano a garantire impunità per tutti, mentre la macchina giudiziaria disinnesca le tre indagini, strappate dalla Cassazione ai magistrati che le avevano avviate. Quella di Milano è spedita a Catanzaro, quelle di Padova e Torino a Roma, dove si bloccheranno per sempre.
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Gli atti dell’Istruttoria del giudice Salvini sono assai chiari sul quadro in cui si svolgono le stragi, sugli esecutori e sui complici e, indirettamente solo, sui mandanti e i complici ad alto livello.
L’analisi durante il processo non é stata smentita, ma non si é arrivati ad una sentenza di colpevolezza per motivi non solo formali e procedurali: un risultato assai negativo per la giustizia italiana.
Chi sono i personaggi: fascisti legati ai servizi, come Zorzi (emigrato in Giappone che rifiuta l’estradizione..ma non é stata neppure chiesta..), militari legati alla CIA (Digilio), ufficiali dei carabinieri che depistano (Delfino..oggi promosso generale), agenti CIA di settore..inestradabili. Manca in quest’inchiesta, ancora una volta, il livello superiore, che s’intravvede ma mai viene chiamato in causa direttamente (ma dove trova un giudice le prove a questo livello? Se ci prova o viene rimosso o salta in aria..).
Quello che l’inchiesta conferma e approfondisce é il quadro già accennato nella relazione della Commissione stragi del Parlamento:
le stragi sono ispirate e aiutate dall’esterno, gli Stati Uniti e la CIA in particolare (ma anche gli Inglesi non sono estranei), hanno dei referenti ad alto livello nello Stato italiano, hanno complici nelle alte sfere dei servizi segreti e militari, hanno esecutori nei gruppi fascisti più estremi.
(v.Giannulli, Il noto servizio)
ma....
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Quelle confessioni da approfondire
di Saverio Ferrari
Che all'interno della Procura di Milano, dopo la riapertura delle nuove indagini sulla strage di piazza Fontana, agli inizi degli anni '90 non tutti avessero remato nella stessa direzione, è un fatto. Lo stesso giudice istruttore Guido Salvini nella sua richiesta di rinvio a giudizio del febbraio 1998, con parole amare, sottolineò lo «scarsissimo sostegno dei dirigenti del Tribunale di Milano», in «silenzio» a fronte di sollecitazioni e «decine di segnalazioni scritte», come se «l'istruttoria non esistesse».
Solo poco più di un anno prima, in commissione stragi, il sostituto procuratore Gerardo D'Ambrosio non solo sollevò contestazioni procedurali, ma attaccò le risultanze emerse nel corso dell'inchiesta, sostenendo l'infondatezza di qualsiasi collegamento internazionale circa la strage.
Il timore, in tutta evidenza, era che alla sbarra potessero finire alcuni agenti della Cia in rapporti con i gruppi della destra eversiva. Chi, come D'Ambrosio, aveva scritto sulla vicenda Pinelli una delle pagine più vergognose della storia giudiziaria italiana, assolvendo per ragioni di sudditanza al potere tutti gli imputati, non poteva certo acconsentire che si accusassero addirittura gli Usa di aver agito alle spalle degli stragisti.
Ora si è in attesa delle decisioni del gip Fabrizio D'Arcangelo riguardo alla richiesta, anche da parte dei familiari delle vittime, di riapertura delle indagini fondata su recenti spunti investigativi. Va subito detto che accanto a improbabili e fantasiose piste, originate in parte dal libro di Paolo Cucchiarelli («Il segreto di Piazza Fontana»), come dalle dichiarazioni di Alfredo Virgillito, classe 1960, parente del più famoso Michelangelo, operatore finanziario del dopoguerra, deceduto nel 1977, che ha accusato lo stesso Michelangelo Virgillito e altri esponenti dell'alta finanza (Michele Sindona, i Ligresti e Antonino La Russa, padre di Ignazio), di essere tra i mandanti della bomba alla Banca Nazionale dell'Agricoltura, altri elementi andrebbero vagliati con più attenzione.
Nelle 53 pagine, con la richiesta di archiviazione, depositate lo scorso fine aprile dai pm Armando Spataro e Maria Grazia Pradella, le tesi di Paolo Cucchiarelli, rilanciate dal film «Romanzo di una strage» riguardo all'esistenza di una doppia bomba (per Cucchiarelli una anarchica e l'altra fascista, per Marco Tullio Giordana, una fascista e una dei servizi), sono state valutate come assolutamente inverosimili e «palesemente prive di fondamento». Così dicasi per le confuse esternazioni di Alfredo Virgillito, già classificato da documentazione medica come persona «mentalmente disturbata» e «psichicamente instabile».
Più concreti e degni di essere seriamente considerati, invece, gli indizi che ultimamente sono stati offerti da ex appartenenti a Ordine nuovo. Ci riferiamo alle dichiarazioni rese davanti al pm di Milano, nell'ottobre 2010, da Gianni Casalini, circa la sua partecipazione insieme a Ivano Toniolo, a uno degli attentati sui treni, nell'agosto 1969, prima di Piazza Fontana. Casalini non era un personaggio qualsiasi, legato a Padova al gruppo di Franco Freda, era, in quegli anni, come "fonte Turco", anche un informatore dei servizi segreti. Tra il 2008 e il 2010 ha ribadito che fu proprio a casa di Ivano Toniolo che si tenne la famosa riunione del 18 aprile 1969, presente Guido Giannettini, agente del Sid, per mettere a punto la strategia che sarebbe culminata con l'attentato di Piazza Fontana.
Ivano Toniolo risulta essersi trasferito da molti anni in Angola. Interrogarlo, come indagare sui "ragazzi di Freda", Aldo Trinco, Pino Romanin e Marco Balzarini, forse non sarebbe tempo sprecato. Ancora più interessante lo spunto offerto, nell'ottobre e nel dicembre 2010, da Giampaolo Stimamiglio, ex di Ordine nuovo, che dopo la morte di Giovanni Ventura, suo intimo amico, sentendosi liberato dal vincolo «al silenzio», in più dichiarazioni ha parlato del coinvolgimento di Delfo Zorzi nella strage, ma soprattutto del fatto che lo stesso «Giovanni Ventura nell'ultima occasione in cui lo vidi in Argentina (...) mi disse che presso la Banca Nazionale dell'Agricoltura aveva operato un ragazzo molto giovane di Milano che faceva parte del gruppo della Fenice e che aveva stretti rapporti con Massimiliano Fachini. Ventura aggiunse, se ben ricordo, che il padre di questo ragazzo era un funzionario di banca». «Delfo Zorzi», queste le sue parole, «si era limitato a curare una parte del trasporto dell'ordigno (che) era stato confezionato in un casolare, o meglio, in una villetta monofamiliare (che) Angelo Ventura (fratello di Giovanni, ndr) aveva avuto in uso da un suo amico del trevigiano (...) in una frazione vicina a Castelfranco, lungo la strada per Treviso». Perché non provare a capirci di più?
Il Manifesto - 12.12.12
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3. Le imprese del «capitano Palinuro»
Francesco Delfino nasce il 27 settembre 1936 a Platì, provincia di Reggio Calabria, paese ad altissima densità mafiosa. Dopo il liceo classico frequentato a Locri entra nell’Arma e frequenta la Scuola allievi sottufficiali. Nel 1957, vicebrigadiere a Rho, in provincia di Milano, conosce Carla Valsesia, bella professoressa di Lettere, che diventa sua moglie. Poi per due anni è a Modena, all’Accademia militare, da cui esce sottotenente. A Roma frequenta la Scuola ufficiali, poi nel 1963 torna al Nord, a Verolanuova, nel Bresciano, come tenente.
Nel 1965 approda a Luino, sul Lago Maggiore. Si iscrive alla facoltà di Scienze politiche a Pavia. Ma comincia a costruire una sua rete di rapporti. Racconterà, molti anni dopo, il «pentito» di ’Ndrangheta Saverio Morabito a Piero Colaprico e Luca Fazzo: «Mio padre, gli ultimi giorni di luglio, ogni volta che dovevamo andare in Calabria per le ferie, cominciava a prepararsi e faceva una capatina in Svizzera, a fare il rifornimento di sigarette. A Luino all’epoca c’era il tenente Francesco Delfino. Mio padre gli telefonava, andava a trovarlo, passavano la giornata insieme, poi mio padre andava dall’altra parte del confine, faceva rifornimento di sigarette, zucchero, caffè, cioccolato, caricava, caricava...».
Nel 1969 a Delfino danno la tenenza di Sòrgolo, nel Nuorese, e nel 1970, a Cagliari, si laurea con una tesi sui sequestri di persona. Il ragazzo è sveglio. In Sardegna, da capitano, indaga sulla serie nera dei rapimenti del ’70, arresta Giuseppe Càmpana detto il Rubbino, luogotenente di Graziano Mesina, e scopre gli autori della strage di Lanusei, cinque morti.
Nel 1971 si trasferisce a Brescia: inizia la sua carriera d’oro, e iniziano le voci che già lo indicano come uomo dei servizi segreti. Comincia a indagare su alcuni misteriosi attentati alle linee ferroviarie in Valtellina. Opera del Mar, il Movimento di Azione Rivoluzionaria guidato da Carlo Fumagalli, partigiano «bianco» e, negli anni Sessanta, agente Cia nello Yemen: il Mar è una formazione armata anticomunista, golpista, ma non fascista; una struttura filoatlantica, a disposizione degli oltranzisti filoamericani, con saldi contatti dentro le istituzioni. Nonostante quei contatti, il 9 maggio 1974 Delfino arresta Fumagalli. «Ho preso Carletto!», telefona contento agli amici.
Due mesi prima, il 9 marzo, aveva bloccato due neofascisti delle Sam (Squadre di Azione Mussolini), Kim Borromeo e Giorgio Spedini. Erano a bordo di un’auto imbottita d’esplosivi. L’operazione era stata realizzata grazie a Luigi Maifredi, uno dei tanti «confidenti» di cui è piena la carriera di Delfino: più che informatori per prevenire reati, veri e propri agenti provocatori con il compito di gestire dall’interno operazioni illegali. L’arresto dei due fascisti, lasciati percorrere indisturbati un lungo tratto di strada e poi bloccati proprio a Sonico, in provincia di Brescia, serve a Delfino per incardinare a Brescia (cioè a se stesso) le indagini sul Mar di Fumagalli.
4. La strage nera
Nella notte tra il 18 e il 19 maggio esplode in piazza Mercato a Brescia un ragazzino neofascista, Silvio Ferrari, a cavallo di una Vespa che trasportava una carica di tritolo. La fidanzata di Ferrari è una bella ragazza diciassettenne, Ombretta Giacomazzi. Molti anni dopo, Ombretta sposerà Carlo Soffiantini, uno dei figli dell’industriale sequestrato. Oggi Giordano, fratello di Carlo, ha dichiarato: «Delfino, quando era capitano, aveva indotto Ombretta a testimoniare il falso, dopo averla arrestata». Ma il culmine di quel tremendo 1974, anno di stragi, d’intrighi e di colpi di Stato minacciati, è il 28 maggio: in piazza della Loggia, a Brescia, esplode una bomba che fa otto morti e 94 feriti. Delfino porta ai giudici, che per la strage stanno seguendo la pista dei fascisti milanesi, un colpevole bresciano, Ermanno Buzzi. È Ugo Bonati, un uomo della banda di Buzzi, ad accusare quella strana figura di fascista e trafficante d’arte.
Bonati, poi, scompare e ancor oggi non si sa che fine abbia fatto. Buzzi è ucciso da suoi camerati nel carcere di Novara, strangolato con le stringhe delle scarpe. E la strage di Brescia è restata senza colpevoli. Il senatore Giovanni Pellegrino scrive nella sua proposta di relazione alla Commissione parlamentare sulle stragi: «Lascia adito a fortissime perplessità la circostanza che il capitano Delfino imprima all’inchiesta su piazza della Loggia una direzione che si è rivelata improduttiva, indirizzandola verso lo sgangherato ed eterogeneo gruppo che ruotava attorno a Ermanno Buzzi. Dall’altro lato, avviene che l’inchiesta sul Mar non raggiunga quel grado di approfondimento che avrebbe potuto consentire il disvelamento del contesto eversivo in cui la strage bresciana può oggi affermarsi inserita».
Oggi è possibile sapere qualcosa di più del capitano Delfino, il carabiniere che arrestava i «neri»: secondo alcuni testimoni, era un «nero» egli stesso, invischiato nel grande gioco dell’eversione degli anni Settanta. O meglio: era un uomo dello Stato che, all’occorrenza, si faceva passare per «nero» e usava spregiudicatamente i «camerati» per la sporca guerra senza esclusione di colpi che si stava combattendo. Racconta Carmine Dominici, ferroviere, ’ndranghetaro politicizzato, neofascista di Avanguardia Nazionale (al giudice di Milano Guido Salvini, verbale del 29 settembre 1994): «So che esisteva un ufficiale dei Carabinieri che curava il trasporto di timer ed esplosivi verso il nostro ambiente avanguardista calabrese. Non so il nome, ma so per certo che un ufficiale dei Carabinieri a cognome Delfino, appartenente a una Loggia massonica, era legato ad Avanguardia Nazionale. Era considerato “dei nostri”. Specifico che con la parola “nostri” indicavamo coloro che anche operativamente operavano con Avanguardia, a differenza della parola “vicini” con la quale indicavamo coloro che davano appoggio, ma senza partecipare a fasi operative; tra questi ricordo il Miceli e il Birindelli».
Perché Avanguardia Nazionale aveva stretto contatti con Delfino? Perché, risponde Dominici a Salvini nel 1994, «erano notori i legami di Delfino con la criminalità organizzata e quindi era da considerare interlocutore di adeguato livello». Ne risulta un bel mix di eversione e criminalità, di «neri» e di mafiosi, in cui gli uomini dello Stato, di alcuni apparati segreti dello Stato, giocano un gioco pericoloso. Delfino in quegli apparati è dentro fino al collo: è lui, dicono oggi i magistrati di Roma, quel «capitano Palinuro» che nel giugno 1973 partecipa a una cruciale riunione a Milano, nella zona della Galleria Vittorio Emanuele, per mettere a punto i piani del Golpe Borghese. Erano presenti, oltre a «Palinuro», tutte le componenti politiche e militari del piano, il colonnello Amos Spiazzi, i finanziatori genovesi De Marchi e Lercari (amministratore della Piaggio), un capo di Ordine Nuovo rimasto sconosciuto.
È Delfino, ribadiscono oggi le carte processuali, quel «capitano Palinuro» che forniva alle Sam armi ed esplosivi (tra cui gelignite). Maestro del doppio gioco: «Palinuro» dava armi ai camerati, Delfino poi, quando conveniva, li arrestava (come aveva fatto con Borromeo e Spedini). Sempre nel 1974, tramontato il progetto golpista, aveva portato in carcere anche Adamo Degli Occhi, l’avvocato milanese leader della Maggioranza Silenziosa, movimento d’opinione con il compito di sostenere le azioni dei golpisti. Secondo i documenti trasmessi a Roma dal giudice Salvini, Delfino sarebbe uno degli ufficiali italiani più vicini alla Cia, il servizio segreto degli Stati Uniti: e fin dai primi anni Settanta. Lui, davanti alla Commissione stragi riunita in seduta segreta, nega: «Vengo continuamente pedinato, io, dalla Cia. E ho dovuto lasciare gli Stati Uniti, forse perché ho toccato qualcosa che non dovevo toccare».
Eppure il neofascista Biagio Pitarresi (quello che ha raccontato lo stupro «di Stato» ai danni di Franca Rame) parlò di Delfino con Carlo Rocchi, uomo della Cia a Milano: «Rocchi mi disse che mi avrebbe portato a conoscere il generale Delfino, che era “uno dei loro”, ossia persona legata ai servizi statunitensi, e che avrebbe dovuto provvedere alla mia copertura dopo l’esecuzione dell’attentato». Quale attentato? Quello che era in preparazione nei confronti del procuratore aggiunto di Milano Gerardo D’Ambrosio, coordinatore del pool Mani pulite, e che fu davvero tentato (ma sventato per la prontezza di un uomo della scorta) il 14 aprile 1995.
5. Le mani sulle Br
Encomi e medaglie al generale sono arrivati anche per «l’ottimo lavoro» svolto nei confronti del terrorismo rosso. Lavoro «doppio», anche in questo caso. Delfino, dopo le esperienze bresciane, nel dicembre 1975 è distaccato a Milano con la sua squadretta: deve occuparsi di brigatisti. Dopo qualche settimana di pedinamenti, viene scoperto il «covo» di via Maderno 10.
Quando però, il 18 gennaio 1976, gli uomini dell’allora maggiore Nicolò Bozzo arrestano (con tanto di conflitto a fuoco) Renato Curcio e Nadia Mantovani, Delfino è già nelle Marche, sulle tracce di Patrizio Peci. Nel marzo 1976 è invece presente di persona, pistola in pugno, alla Stazione Centrale di Milano e dopo un conflitto a fuoco arresta il brigatista Giorgio Semeria, appena sceso dal treno proveniente da Venezia. È un informatore, anche questa volta, la carta vincente di Delfino: un padovano fiancheggiatore delle Br lo avverte del viaggio di Semeria.
Nel 1978, quando le Brigate Rosse fanno il colpo grosso, cioè il sequestro del presidente della Dc Aldo Moro, la mano di Delfino si fa sentire ancor più pesante. «Un suo uomo, Antonio Nirta, della ’Ndrangheta calabrese, è presente in via Fani al momento del rapimento»: così racconta il «pentito» calabrese Saverio Morabito al magistrato milanese Alberto Nobili, che manda a Roma le carte raccolte.
Il sostituto procuratore Antonio Marini procede nelle indagini e si imbatte in un altro personaggio, Alessio Casimirri, brigatista rosso diventato confidente di Delfino: Casimirri avrebbe raccontato al generale che era in preparazione il rapimento Moro e Delfino, invece di avvertire i magistrati, avrebbe passato la notizia al Sismi, il servizio segreto militare.
Risultato: Moro ucciso il 9 maggio 1978, Casimirri «esfiltrato» dai servizi prima in Francia e poi in Nicaragua, Delfino promosso il 6 giugno 1978 e passato al Sismi. Incarichi all’estero, ad Ankara, Bruxelles, Il Cairo, Stati Uniti...
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sabato 3 novembre 2012